Inutile far finta che non sia così, professandosi magari avventuroso apolide in posa compiaciuta: ogni uomo di questo mondo sempre più globalizzato, sempre più piccolo, circoscrivibile, è e resterà innanzitutto figlio della sua terra.
Questo vale per tutti, dallo sprovveduto (almeno apparentemente) villanello fino al metropolitano più doc e snob che possiate immaginare. Sempre, volgendo lo sguardo intorno a sé, troverà egli occasione in ogni singolo giorno della sua vita, anche a migliaia di chilometri di distanza, di riconoscere il suo paesaggio, le sue strade, il suo cielo perfino. E vi si specchierà dentro nel cuore non come un inutile Narciso da strapazzo, ma con tutto il candore e la divina naturalezza che contrassegna il momento dell’auto-agnizione. Dopo la quale -solo dopo la quale- si capisce davvero chi si è e si comincia a misurare la vita per quello che dovrebbe essere.
Lo sa bene anche un uomo enorme come Bruce Springsteen, che del suo New Jersey ha fatto il grimaldello giusto per scardinare le porte blindate dell’esperienza e trasformarsi nel Bardo amatissimo del rock dei giorni nostri.
E lo spiega dettagliatamente James Pettifer nel suo “Bruce Springsteen & Atlantic City” (Odoya, 2019, pp. 267, € 20, traduzione di Valentina Misgur).
L’occasione è la ormai leggendaria tournée del Magic Tour tra il 2007 e il 2008, l’ultima effettuata dal Boss con la E Street Band originale, con la quale tornava in pista dopo un lustro di lunga attesa per i fan con l’intenzione di rinverdire il caposaldo fondante della sua poetica: l’idea di celebrare-raccontare una terra promessa, l’America, attraverso il solito, possente anelito alla giustizia e al sentimento e attraverso la cruda e romantica poesia urbana che sostanzia canzoni senza tempo come Radio Nowhere, la title track o Long Walk Home.
Attenzione, però, perché il libro dell’autore inglese non rappresenta l’ennesimo excursus aneddotico, interpretativo e celebrativo della straordinaria carriera e della altrettanto straordinaria vicenda umana del musicista di Long Branch: prendendo infatti le mosse dalla fortunosa partecipazione ad una data del tour nel New Jersey da parte dell’autore, questo volume ci guida all’interno di una storia, quella appunto del “Garden State”, che nel corso di pochi secoli (fondamentalmente poco più di tre e mezzo) si è arricchita di una miriade di episodi e personaggi in grado di esemplificare perfettamente il vorticoso e contraddittorio divenire della società a stelle e strisce che in Springsteen ha trovato con ogni probabilità il suo più appassionato e inclusivo cantore. Ecco dunque che in queste pagine, ininterrottamente dense di curiosità e piglio storicistico, trovano spazio un’appassionata ricostruzione dell’epica conquista e civilizzazione di queste terre, per poi passare ad una minuziosa descrizione della sua varietà geografica e sociale, fino ad arrivare, in un trionfo di erudizione ma anche di sapienza narrativa, all’analisi di tutta una serie di fenomeni sociali e sociologici che nelle composizioni del Boss hanno trovato la loro sublimazione lirica nello stesso tempo più semplice ed intensa.
Si parla del fenomeno rappresentato dalla celebre serie dei Soprano o della fucina di scienziati usciti fuori dall’Università di Princetown, delle varie ondate di immigrazione nel New Jersey o della metafisica, tutta americana, del casinò, delle mille luci degli interminabili boulevard autostradali e della “santità” tutta terrena esercitata dalle automobili su di esse lanciate, fino ad arrivare agli scorci raccolti e intimisti di certe spiagge o alle violente contraddizioni e disparità economiche che permeano da sempre la zona. Un grande, magmatico calderone argomentativo la cui descrizione viene sempre ricondotta ai testi scritti da Springsteen, nelle cui strofe, anche in quelle apparentemente meno sanguinanti, si rivela uno struggente attaccamento ai propri luoghi aviti, che, come si diceva, divengono con le loro pittoresche particolarità il metro con il quale indagare l’oggi e immaginare il domani.
Un libro differente quello di Pettifer, che rappresenta senza alcun dubbio un must non perdibile per tutti gli apologeti del Boss, ma che nel suo inarrestabile stratificarsi in episodi e ricostruzioni, e sorreggendosi su uno stile sostenuto ma non di rado dottamente colloquiale, dopo la sua lettura regala anche al profano una possibilità di poter decodificare con migliore prontezza l’enormità dell’America che vorremmo conoscere (oltre, è chiaro, ad affinare non poco la capacità di intelligere il lavoro di uno dei più preziosi artisti “popolari” che lo scorso secolo ci ha regalato).