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James Yorkston anteprima. Il libro dei Gaeli

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Il musicista folk scozzese James Yorkston ha inciso album acclamati dalla critica nel corso della sua carriera ventennale. Ma nella scrittura, è attratto dal fallimento artistico.

Nel suo romanzo d’esordio, Three Craws (2016), raccontava la storia di Johnny, che riconosceva di non poter mai diventare un artista di successo. James Yorkston, ha anche condiviso le sue avventure in tour in It’s Lovely To Be Here: The Touring Diaries of a Scottish Gent.

Ora arriva Il libro dei Gaeli (Jimenez Editore 2023, pp. 304, € 19 con traduzione di Gianluca Testani), la storia carismatica di Fraser, un poeta che scoprirà che la letteratura non basterà a sfamare i suoi figli. Un’opera che traccia un’odissea cupa e disperata, con poche speranze lungo il cammino.

Il libro si apre nell’ovest di Cork negli anni ’70 ed è narrato da Joseph, il figlio di Fraser.

Joseph, insieme al fratellino Paul, affronta fame e freddo. Invece Fraser, dopo la morte della madre dei ragazzi, si rifugia nell’alcol e nella poesia, lasciando che i figli si arrangino da soli.

Queste prime esperienze sono tra i momenti più coinvolgenti di una storia che si fa sempre più oscura quando Fraser decide di portare con sé la sua famiglia in un’impresa folle dopo aver ricevuto una lettera da un editore di Dublino.

Ciò spinge Fraser a intraprendere un viaggio rocambolesco verso la città, facendo l’autostop, salendo su autobus senza biglietto e cercando rifugio nelle chiese.

Questo romanzo, in chiave minore ma con ritmi sempre mutevoli, esplora l’amore imperfetto di Fraser per i suoi figli. Le sue poesie sono sparse nel libro, con versi essenziali e profondi di significato.

Il viaggio è pieno di difficoltà, ma l’amore di Fraser per i figli alla fine lo salva.

Joseph, il giovane narratore, percepisce la minaccia e comprende che solo combattendo e fuggendo potranno salvarsi.

Carlo Tortarolo

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Per colpa della vicinanza della casa alla laguna, o, per essere più precisi, a causa della vicinanza della casa alla fognatura, avevamo sempre un esercito di mosche che ci svolazzava attorno, e più spesso in casa che fuori. Mi verrebbe da dire che la costanza della pioggia doveva infastidirle parecchio, e che dentro casa potevano trovare scarti e avanzi di cibo quanti bastavano loro per tirare avanti. Le osservavamo muoversi a squadroni per casa, salire e scendere le scale, entrare e uscire dalle stanze in gruppi da venti o poco più, talvolta interagendo, talvolta ronzando, talvolta dialogando con comitive meno numerose. Ce ne stavamo seduti lì, io e il mio fratellino Paul, commentando le loro manovre di combattimento: se le mosche del piano di sopra erano sporchi crucchi, quelle del piano terra erano invece la nostra amata e valorosa brigata scozzese, posta coraggiosamente a difesa della base delle scale, via d’accesso per l’esterno della casa. Quel che, di tanto in tanto, incoraggiava il nostro piccolo meraviglioso passatempo era l’improvvisa caduta dall’alto, morta stecchita, di una mosca. Si sdraiava accanto a noi, ci regalava un ultimo shimmy, un movimento di zampe e poi ferma, immobile.

Quando la mosca si sottoponeva alla sua ultima confessione discutevamo. La sua anima sarebbe stata pura? Perdonami, Padre delle mosche, perché ho peccato. Sono passati due lunghi minuti dalla mia ultima confessione. In questo lasso di tempo, sono atterrata su una mela e poi ho girovagato un po’ prima di decollare di nuovo verso la grande luce, sai, quella in cucina…

Una volta una mosca andò a incagliarsi in quella valle della morte che sono i capelli di Paul, e tuttavia, percependo di non essere finita sul suolo consacrato del davanzale o della scala, del lavandino o della fruttiera, di una scarpa o di un bicchiere, rimase lì confusa e disorientata per almeno un minuto più a lungo rispetto a quanto verificavamo solitamente.

Paul urlava Toglimela di dosso! Toglimela di dosso!, e io gli giravo attorno come se fossi un burattinaio intento a muovere i fili invisibili della sua testa, spaventato all’idea di toccarlo, terrorizzato all’idea di vedere la mosca. Quando il ronzio cessò, Paul si sedette sulle scale piangendo e io, coraggiosamente, andai a rovistare tra i suoi capelli e rimossi quasi tutta la mosca.

Non c’è più?

Non c’è più.

Non era vero, ma la mosca quasi non c’era più. Forse le avevo strappato una zampa col pettine, forse avevo perduto anche un’ala, ma non c’era più nulla che non avrebbe potuto capitarvi durante una galoppata con un pony o una corsa in bicicletta fuori lungo il sentiero.

Quando i loro corpi erano senza alcun dubbio morti, inoffensivi, immobili, li raccoglievamo mischiandoli tra loro su pezzi di carta strappati da uno dei vecchi libri di nostro padre, e quando infine ne avevamo un gruppetto, venti o giù di lì, lo portavamo, facendo grande attenzione, in cima alle scale. Ci posizionavamo lì e attendevamo che un altro battaglione di mosche apparisse di sotto. Quando il battaglione arrivava, o quando eravamo annoiati, lanciavamo l’intero mucchio di carcasse per aria e giù per le scale, urlando All’attacco! All’attacco! e Hiawatha!

Non so dire che cosa pensassero le altre mosche, se pensassero qualcosa nel vedere le loro cugine morte tornare brevemente in vita per poi precipitare come sassi, ancora una volta, sul tappeto a coste della scalinata.

Dopo, quando le raccoglievamo, le carcasse avevano perso le gambe, metà del corpo, le ali… Dove erano andate a finire tutte quelle parti mancanti?

Quando andavo a cena mescolavo la mia zuppa con la dovuta attenzione.

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