In esclusiva italiana per Satisfiction un inedito di Javier Marìas, il più grande scrittore contemporaneo spagnolo, autore di capolavori come Domani nella battaglia pensa a me, Berta Isla e da pochi giorni in libreria con Vite scritte, un capolavoro che racconta con brevi e efficacissimi ritratti i vizi dei più grandi scrittori della letteratura: da Mark Twain a Vladimir Nabokov, da William Faulkner ad Arthur Rimbaud, Turgenev e molti altri.
In questo inedito assoluto Marìas racconta la sua passione per la scrittura, la gestazione del nuovo libro (scritto con la macchina da scrivere), la sua avversione per i tempi moderni e tutti i segreti del dietro le quinte del mestiere di scrivere.
Gian Paolo Serino
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Mentre scrivo questo articolo, sono passati solo quattro giorni da quando ho concluso un nuovo romanzo. 576 pagine della mia vecchia macchina Olympia Carrera de Luxe, la quale, temo, sta per spirare dopo il tour de force a cui l’ho sottoposta (ogni pagina battuta in media almeno tre volte). Comincia a perdere colpi, e se non riesco a rimpiazzarla smetterò di scrivere, immagino: a questo punto della mia vita mi vedo incapace di passare al computer, di rinunciare alla carta e alle correzioni a mano con penna stilografica per ogni versione di ogni pagina. Con questo strumento ormai arcaico, mando avanti anche questi pezzi domenicali, che subiscono un simile trattamento di revisione e rettifica. Ringrazio chi mi dà lavoro perché mi permette ancora di consegnare un prodotto che richiede più impegno del solito. Sicuramente se fossi un giovane meritevole mi manderebbero a quel paese e mi direbbero: “Bello, prenditi un computer, cosa credi, di vivere ancora nel ventesimo secolo?”
In altri no, ma da questo punto di vista faccio fatica a vivere nel ventunesimo secolo. Il mio primo romanzo si pubblicò nel remoto 1971, quando avevo diciannove anni. Nel lunghissimo periodo trascorso da allora, non si può dire che ne abbia scritte tanti: quello appena concluso è il quindicesimo, se considero tre i volumi de Il tuo volto domani, che uscirono nel 2002, 2004 e 2007. Formano un’opera unitaria, ma per me ciascuno ha richiesto lo sforzo di un romanzo a sé. Insomma, pubblico in media uno ogni tre anni. Se faccio un confronto con i maestri del passato e del presente (e ovviamente con chi non lo è stato né lo è), sono un romanziere che tende a scarseggiare.
Forse è per questo motivo, perché ci dedico molto tempo, e anche perché non so se ce ne saranno altre in futuro, concluderne uno mi provoca stati d’animo contrastanti. Quello immediato e prevalente è l’incredulità: “Ce l’ho fatta a porre fine a tutto questo? Se prima tutti questi fogli erano in bianco…”. In questo caso, sono passati venticinque mesi dalle dubbiose linee iniziali. Per più di due anni ho convissuto -non quotidianamente, magari- con dei personaggi nuovi all’inizio e che alla fine sono diventati più che amicizie. Anche se uno non si siede davanti alla macchina da scrivere -e sono molte le giornate nelle quali è impossibile farlo, dovuto a viaggi o faccende varie-, per tutto il tempo della composizione gli ronzano attorno incessantemente. Uno pensa a loro con maggior intensità che alle persone reali che lo circondando: di queste ultime non ne sta raccontando la storia, né ci partecipa con lo stesso grado di vicinanza, e naturalmente è privo di capacità decisionale sulle loro vite, che invece sì possiede sui suoi personaggi di finzione, per recuperare la vecchia formula. Così congedarsi da loro è in un certo senso un cataclisma personale. “Ma come?”, uno si chiede, “adesso ho perso questi amici? Non devo più occuparmi di loro, non devo guidarli tutti i giorni? Qui li abbandono e qui mi abbandonano? Se non muoiono, non mi interessa ciò che ne sarà di loro?” Sì, mi interessa, ma forse no sono ai possibili lettori futuri; che potrebbero stancarsi, o del fatto che le migliori storie sono quelle che non si raccontano per intero, non da cima a fondo.
E lì comincia il sentimento ambiguo che segue: mentre uno scrive (parlo sempre per me, ovvio) non prende molto in considerazione ciò che agli altri risulta evidente: lo fa perché venga letto. È così evidente, che uno quasi lo ignora. Tuttavia, una volta che si è messo il punto finale, l’idea ricompare assieme a tutte le sue conseguenze: “Non solo mi congedo da questi amici, ma tra alcuni mesi queste creature che mantenevo rinchiuse e che nessun altro conosceva, diventeranno amici di persone che nemmeno ho visto, dei gentili lettori che si scomoderanno ad aprire questo libro”. La prospettiva è strana. Proprio in questo momento, la mia prima e forse miglior lettrice ha già letto 200 di quelle 576 pagine. Poco alla volta sa che cosa ho avuto tra le mani in questi ultimi due anni. Che cosa ho concepito, che cosa ho tramato, che cosa mi ha preoccupato, mi fa qualche commento su una situazione o un personaggio; che cosa ho pensato e come mi sono astratto. Per chi ha custodito tutto questo in segreto, è inquietante. Ma è anche una gioia. Il destino più triste per un romanzo è che a nessuno venga la minima curiosità di leggerlo. Magari allora che queste “creature dell’aria” (come in modo opportuno le chiamò Savater molto tempo fa) riescano a farsi innumerevoli nuove amicizie, anche se io non sarò invitato alle feste private che terranno con ciascun lettore attento. Mi rimane la “consolazione” che, come ora ho recuperato personaggi de Il tuo volto domani, forse un giorno tornerò a incontrare Berta Isla. Il titolo non è ancora stato deciso, ma potrebbe essere questo, Berta Isla, per inserirmi in una lunghissima e spesso nobile tradizione: quella di Jane Eyre, Anna Karenina, Oliver Twist, David Copperfield, Madame Bovary, Robinson Crusoe, Tess de los d’Urberville, Eugénie Grandet, Tom Jones, Tristram Shandy, Moll Flanders, Daisy Miller, Jean Santeuil e tanti altri titoli memorabili. Ahi, se solo bastasse questo per avvicinarsi un poco a loro…
© Javier Marías
Traduzione di Daniele Pradetto Coccolo