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Jean Cayrol. Vivrò l’amore degli altri

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Una volta lessi un libro di Carmen Aguirre che parlava della militanza armata dal punto di vista di chi, essendoci cresciuta, essendosi formata dentro la clandestinità, dopo anni, smette di essere un guerrigliero e parlava, quindi, la Aguirre, dell’imprevedibile difficoltà di reinventarsi come essere umano e fare i conti con tutti i traumi che certe vite lasciano addosso e delle quali ti rendi conto solo quando ti fermi. La Aguirre raccontava di non essere mai stata arrestata, di non essere mai stata ferita, ma di aver vissuto per moltissimi anni con l’idea costante che questo potesse accadere, che potesse essere scoperta, torturata e uccisa e dell’impatto emotivo che questo aveva avuto su di lei e di come se ne fosse resa conto solo dopo, quando la lotta armata era finita, sconfitta.

Pensavo a questo, leggendo Vivrò l’amore degli altri di Jean Cayrol, uno scrittore francese che in Italia non è molto noto e che ha scritto un’importante trilogia sulla vita dopo l’olocausto, ovvero cosa rimane di un uomo che è stato, con tutto il corpo, all’inferno ed è sopravvissuto.

Se nel primo libro, dal titolo Lasciatelo parlare, sempre edito da Marietti1820 e tradotto da Valeria Pompejano, Cayrol raccontava, attraverso un protagonista senza nome, che aveva smarrito quindi la sua stessa identità, la riappropriazione del corpo, la sua naturale predisposizione a possedere anche le cose più piccole che, nel campo, gli era stata sottratta, come il nome, come la dignità, come l’essere uomo; in questa seconda tappa, lo scrittore superstite, ci racconta la fase successiva dove il lazzariano – così lo chiama Cayrol – ha recuperato un nome, si chiama Armand, e poi un posto dove stare, che però divide con il suo migliore amico, Albert e la sua compagna, Lucette. Attraverso l’amore di Albert e Lucette, Armand riscopre la sua stessa capacità di provare dei sentimenti.

Vive con loro, con gli amanti, dentro una casa molto piccola, ma quasi non gli rivolge la parola, soprattutto a Lucette. La guarda, la ammira, ma non ha nulla da dirle. Osserva il loro amore da lontano, incuriosito da ciò che lui stesso riesce a provare attraverso di loro. Albert va a prendere Lucette al lavoro, camminano per strada, allungano la ritirata, si baciano, mentre Armand li segue da lontano, si nasconde.

L’apprendistato per il nuovo nato, è lento e doloroso. Inoltre per i deportati, al ritorno, c’è solo la miseria ad attenderli. Di quello che possedevano non è rimasto nulla, hanno di nuovo la loro vita, sono liberi di andare in giro, ma per andare dove?

Va spesso alla stazione Armand, dove può fingersi indaffarato, dove guarda gli altri partire e arrivare.

Assistiamo alla rinascita del soggetto che si libera cautamente del campo di prigionia e si muove nel mondo riconquistato con estrema difficoltà.

È veramente commovente questo racconto della riappropriazione di sé. Ci sono molte cose dello stare al mondo che noi diamo per scontate e che scontate non sono per chi, quelle stesse cose, se l’è viste sottrarre tutte insieme. Ci si accorge di quanto siano fugaci, di quanto sia facile perdere la libertà, la casa, gli affetti, il proprio nome.

Dice Cayrol che coloro che sono stati colpiti dalla prigionia sono malati di una malattia indefinibile e per la quale non c’è una cura. Da lì deriva il silenzio pudico, l’impossibilità di immaginare la propria esperienza, il muto stupore, così scrive, quando si rivolge loro la parola.

E scrive poi, sempre Cayrol, una cosa che io trovo illuminante:

se i deportati si ritrovano, lo fanno in un universo falsato, in una comunità snaturata, al cui interno ciascuno dei membri presta il fianco a malintesi… Non ci si può riunire per scambiarsi ferite come francobolli. I ricordi non si possono trasmettere…

Pieragelo Consoli

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Jean Cayrol, Vivrò l’amore degli altri, Marietti 1820, 2024, Pp.170, euro 16

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