Su The End of the Myth, lo storico Greg Grandin racconta di come nel 1811 il futuro presidente degli Stati Uniti Andrew Jackson fu fermato dall’agente federale Silas Dinsmoor mentre conduceva una coffle (una parata di schiavi afroamericani incatenati tra loro) lungo la tratta Natchez-Nashville. Trattandosi di una terra di confine tra i territori Chickasaw e Choctaw, nominalmente sotto protezione federale, Dinsmoor era tenuto a chiedere il passaporto a chiunque si trovasse a passare da lì. Quando gli fu chiesto se avesse il passaporto, Jackson rispose “Certo signore, lo porto sempre in tasca,” intendendo la Costituzione Americana che garantiva libertà di passo in terre per legge libere per ogni cittadino americano. Una versione alternativa, meno edulcorata e sicuramente più divertente da credere vuole invece che Jackson avesse mostrato le sue pistole a Dinsmoor dicendogli “Queste sono il passaporto del Generale Jackson!” Le armi e il diritto di possederle e portarsele dietro sono stati uno dei tristi fondamenti della libertà e della storia americana fin dalla ratificazione del Secondo Emendamento, e forse non esiste paese nel mondo occidentale dove ottenere un’arma sia così facile e quasi scontato. Tanto scontato e tanto tragicamente facile da essere un problema politico ormai vecchio di secoli. Che le armi siano pericolose, soprattutto se lasciate in possesso di semplici cittadini, è una banalità anche fin troppo a buon mercato (e c’è chi con questa banalità a buon mercato ci si è arricchito con un documentario). Jennifer Clement è riuscita a cucire attorno a questa banalità una piccola favola dark, dai toni cupi e quasi western in un libro che cerca di mostrare il lato nascosto di tanta America.
Quella stessa parte nascosta e forse dimenticata del blues delle origini, per esempio, quello sudato e spaventoso con pezzi dai titoli come “Can’t Nobody Hide from God,” “Jesus Make Up my Dying Bed,” “I Ask for Water, She Gave Me Gasoline” quest’ultimo pezzo citato anche da Jennifer Clement nel corso di Gun Love, la cui protagonista ha una madre che “conosceva a memoria tutte le canzoni dell’università dell’amore: ‘Slowly Walk Close to Me,’ ‘Where Did You Sleep Last Night?,’ ‘Born Under a Bad Sign,’ e l’intera serie ‘Se mi lasci ti uccido’”: una serie di canzoni che un po’ ricorda le canzoni country che Rachel Kushner cita sul recente The Mars Room, a corredo di un’idea di violenza e machismo che è da sempre una presenza latente in alcune piaghe del folclore americano. È l’America povera, difficile e spietata che ogni tanto fa capolino in serie tv tra il tragico di Bloodline e This is Us e il grottesco di Atlanta e Shameless. In Gun Love siamo in Florida, ultimamente raccontata in molti libri, come la raccolta di saggi The Sunshine State di Sarah Gerard, romanzi come Swampalandia di Karen Russell e i racconti raccolti su Florida di Lauren Groff, o rappresentata in altri media come i dischi di Kodack Black o il recente ZUU di Denzel Curry. E se Lauren Groff ha raccontato una Florida in bilico tra la bellezza e i dispetti della natura come allegoria del duplice lato umano e animalesco dell’uomo, Jennifer Clement racconta una Florida tenuta nascosta perché spaventosa:
Non eravamo nel Sud della Florida, tra le spiagge calde e il Golfo del Messico. Non eravamo vicino agli aranceti o a Saint Augustine, la città più antica d’America. Non eravamo nella zona delle Everglades, dove nuvole di zanzare e una spessa coltre di rampicanti proteggevano aggraziate orchidee. Per arrivare a Miami, con la sua musica cubana e le strade piene di decappottabili, ci voleva un bel pezzo. L’Animal Kingdom e il Magic Kingdom erano a chilometri di distanza. Eravamo nel nulla.
In questa Florida il sole serve solo a illuminare cose che non vorremmo vedere, e che forse sono presenti sparpagliate un po’ ovunque in quell’America stesa sonnacchiosa tra le due coste. In questa parte della Florida “era tutto incasinato. La vita sembrava sempre una scarpa sul piede sbagliato.” In questa Florida si trovano cartelli con su scritto “Non chiamare la polizia, comprati una pistola”. In questa Florida ci sono più chiese che scuole, e dove sui libri da colorare per bambini ci sono “disegni di pistole, fucili, carabine e mitragliatrici,” e “il titolo sulla copertina era Il libro delle armi.” In questa Florida ha luogo la favola dark di Pearl France, una quattordicenne rimasta da sola con la madre Margot e ridotta a vivere in una Mercury Topaz in un parcheggio per caravan, accanto a un’accolita di personaggi sospesi tra il surreale e l’inquietante, come April May, unica amica di Pearl, figlia un po’ prepotente di una madre fin troppo docile; la coppia messicana Ray e Corazón (che mostrerà tutta la sua ambiguità nella seconda parte del libro); Noelle, figlia mentalmente instabile di una ex insegnate, che fa collezione di Barbie e biglietti dei biscotti della fortuna, sa tutto di matematica e non esce di casa quando piove per paura di restare fulminata; un veterano con una gamba sola che passa il tempo a sparare inutilmente: tutti accanto a una discarica da cui sembrano nascere alligatori siamesi uniti per le zampe. Fino a quando un oscuro pastore fa entrare in quella piccola comunità Eli Redmond, un elemento quasi falstaffiano, un Anton Chigurh che pur non comparendo quasi mai nel libro è il fulcro silenzioso di una discesa negli inferi. Con lui inizia una compravendita di armi da fuoco, già avviata dal Pastore Rex che acquistava le armi di chi aveva bisogno di denaro con lo slogan “Date a Dio le vostre armi.” Ormai sappiamo fin troppo bene che se introduci una pistola nel primo atto, quella pistola poi dovrà sparare e il rinculo del colpo innesca una coda che è una piccola novella di formazione e espiazione. Gun Love diventa così un monito sulla pericolosità delle armi, su quanto sia incauto dare armi a chi non sa come resistere alla tentazione di sparare a qualcuno “just to watch him dying” come cantava Johnny Cash.
Jennifer Clement riesce a impreziosire un tema ormai se non banale, almeno inflazionato e istituzionalizzato in campagne elettorali e di sensibilizzazione. Gun Love prende la realtà e la trasforma per eccesso nel suo opposto: una fiaba oscura e spaventosa che ha per protagonisti persone che sembrano mostri reietti, che vivono in roulotte ai margini di una società che vuole nascondere ciò che non vuole o non può usare. Lo fa adottando il punto di vista impressionabile e ancora malleabile di una ragazzina alle soglie dell’adolescenza, con un linguaggio ellittico, veloce, coinvolgente ma privo di sbavature sentimentali, dove la narratrice non si lascia sovrastare dagli orrori di cui è involontaria testimone. Pearl ha la pelle bianchissima, simbolo di un candore che non è possibile mantenere in mezzo a una discarica Forse l’unico modo di mostrare realtà simili è quello di presentarle come racconti irreali, esagerarne i contorni e rischiare la parodia o la caricatura. Probabilmente però questo è anche il limite del libro che vuole essere tanto reale da sembrare finto, quasi una storia scritta per una serie televisiva, dove la realtà è filtrata dall’urgenza di diventare spettacolo.