È uscito il 17 aprile, il Macbeth di Jo Nesbø, pubblicato in Italia da Rizzoli, casa editrice che sforna le riscritture shakespeariane commissionate dalla Hogarth Press per un pubblico di lettori del XXI secolo. In tempi di blog, trasmissioni e interessi culinari, c’è anche chi prende un capolavoro come il Macbeth di William Shakespeare e ne tira fuori una ricetta succulenta, molto, ma che richiede una lunga digestione, lunga esattamente 613 pagine. Certo, il compito era dei più ardui ma il risultato è deludente. D’altronde l’autore lo dice: non potendo competere con la poesia shakespeariana, ha “usato lo scheletro dell’opera di Macbeth” per ricavarne una crime story ambientata negli anni settanta in una città densa di fumi, malata e corrotta dove bande rivali scorrazzano sulle loro motociclette per contendersi il mercato della droga a colpi di sciabola. Qui Macbeth diventa capitano della SWAT, grazie all’incontro con Banquo, una specie di padre buono, ma poco ambizioso, che gli dà una prospettiva di vita (lavorativa e morale) che gli permette di lasciarsi alle spalle l’orfanotrofio e la vita da tossico.
Non ha la mente piena di scorpioni, questo Macbeth, ha le mani come coltelli e un vuoto di volontà che fa spavento, imbambolato dalla sua Lady dai capelli rosso fuoco e dal passato ingrato di puttana- “una moderna cougar”, dice Nesbø. È da lei che viene il futuro, il domani di un uomo “poco intelligente”, afferma ancora l’autore, che si affida dunque alle mente della sua Lady che gli soffia nell’orecchio parole che lo incitano all’omicidio di Duncan, il commissario capo della polizia che progetta di ripulire la città. Non c’è dramma, solo obbedienza; nessun rovello, solo acquiescenza, o meglio, dipendenza, perché sembra di capire che per uccidere Duncan ci sia bisogno, non di tormenti ma di droghe, mescolate in un grande calderone a cui si arriva percorrendo i cessi della stazione frequentata solo da anime perse e dove i treni non partono più; e sembra di capire che sia possibile compiere l’atto solo alterando la coscienza: il male è indotto, non è dentro, sono visioni psicotrope, immagini sussurrate, sotterranei putridi dove Ecate, il boss della mala, distilla le sue pozioni e le sparge per la città. Non che non vi siano momenti di riflessione, ma dileguano in fretta.
Non vi è soprannaturale, qualche profezia gettata qua e là a caso, molta suspense dovuta a inseguimenti e ammazzamenti da seguire con il fiato sospeso, perché il soprannaturale è virato tutto nei toni dell’umano dove il destino è qualcosa che ha a che fare con la corruzione, gli infiltrati e la rete di informatori che fanno capo a Ecate, l’occhio appunto di una moderna informazione, il modello di una società spiona, lo stesso che gestisce la sua banda di sorelle sfregiate, le weird sister originali, che rimestano il calderone delle visioni dove affogano quasi tutti. Strega è il loro capo banda ed è un transessuale. Duff, il compagno di orfanotrofio di Macbeth, poliziotto anche lui, che gli ha soffiato la ragazza e se l’è sposata per poi tradirla con Caithness (che qui diventa una donna), salvo poi pentirsene per la nostalgia del quieto vivere familiare. Lennox un assuefatto. Seyton un invasato sanguinario peggio di Macbeth. Troppo, troppo, troppo. Un troppo che è al tempo stesso un difetto e un pregio, l’unico motivo per cui ritrovarsi a letto, ogni sera, con la curiosità di sapere dove Nesbø andrà a parare. Perché qui l’unico sprone è quello dell’ambizione, quella di essere accettati, e quindi la rivendicazione: quella di Lady, ad esempio, che vuole riabilitare la sua figura e diventare “una che conta”, dimenticando tutto il resto, persino l’omicidio della sua bambina che, a un certo punto, rivede nel cadaverino di un neonato con la testa crivellata di colpi e che, drogata anche lei, si attacca al seno. Dunque è lei la mente. Ma qui di pensiero ce n’è poco. È tutta azione- il sogno coronato di Macbeth: non metter tempo tra pensiero e azione (d’ora innanzi/ ogni nuovo moto dell’animo sarà tutt’uno/ con quello della mano). Poco pensiero, quindi, e niente paura, al contrario dell’originale in cui vi è una mente che ragiona, seziona, calcola, soppesa le alternative che possono essere buone o cattive: e se cattive perché gli si sono presentate in una forma tanto allettante; se invece sono buone perché il pensiero, con il corollario delle sue orride immagini, gli stimola immediatamente un sentimento di sgomento e di paura? Present fears/ are less than horrible imaginings! Certo, ha ragione, il Macbeth di Shakespeare, le paure concrete, quelle che hanno ancora un corpo che si può toccare, un corpo solido che non si sciolga come fiato al vento, le immagini di morte che fronteggia sui campi di battaglia, sono meno spaventose del delirio di una mente senza riposo, di una elucubrazione continua che soffoca anche l’azione, principale caratteristica di un soldato. Il suo centro si è spostato, non è più nel braccio della giustizia, è nella mano che uccide la pace, che consegna il protagonista, e il paese, nelle spire di un male che è guerra di tutti contro tutti, è sospetto, è tirannia di una parte sull’altra, una parte che però neanche al suo interno è stabile, assodata, ma continuamente messa in discussione: Se tutto finisse una volta fatto, allora sarebbe bene/ che fosse fatto subito. Ma niente finisce, appunto, quando la mente non individui un punto fermo da cui partire, quando non ci sia origine che riassuma anche una fine; e allora neanche i morti trovano riposo ma ritornano nella forma del fantasma che è vuoto ed è rimorso, fino ad un certo punto, poi solo vuoto, immagine pura, significante slegato, un cane sciolto. Macbeth si ripiega su se stesso, prende il lazo per acchiappare il senso della sua individualità e ci si impicca perché ciò che concepisce è una mostruosa ingiustizia, una deep damnation. Ha già paura di questo fondo così oscuro, il Macbeth shakespeariano, e se si chiede cosa sia il mostro, comincia ora a intuire che il mostro è dentro ma non lo riassorbe, lo esteriorizza e lo combatte, come è abituato a fare, come se il campo di battaglia interiore potesse essere guardato da uno sguardo altro, come una scena teatrale: la sua intenzione allora viene posta al di fuori di sé e diventa coltello, anche se un coltello che è forse partorito dalla febbre del suo cervello farneticante che crea immagini false, ma false solo per chi tenta di afferrarlo duplicandolo in un coltello reale, raddoppiandone quindi la valenza: Eppure ti vedo ancora, tangibile forma/ come questo che ora sfodero. Il confronto sdoppia le immagini, le moltiplica e dà il via a una loro proliferazione incontrollata, come in un gioco di specchi.
Questo era il Macbeth originale.
Quello di Nesbø assomiglia forse più alla riproposizione cinematografica di Justin Kurzel, non un miscredente- come quello shakespeariano, credo- ma un alienato, con le immagini di guerra e morte che vanno in slow motion, con il sangue come fosse petali, dove non c’è tragedia ma solo discesa, il suo inferno. E’ un mondo di silenzi, quello di Macbeth, un mondo dove il sospetto si annida negli occhi, dove la mente si perde nella paura di quella ragione che genera mostri- non il suo sonno, ma la sua attività; è un mondo dove Banquo rivolge i suoi monologhi a un bambino spaurito che lo guarda come se fosse pazzo e lui non se ne accorge; è un mondo dove lady Macbeth trae la sua forza da un cristianesimo fatto di superstizioni, di gusci che suonano, di rametti cavi, di candele e figure orrorifiche dipinte ai lati della croce; è un mondo dove la violenza ha intontito tutti, li ha resi ebeti e sanguinari: non c’è redenzione e non c’è speranza. Questa Scozia è un posto maledetto, è rosso sangue, e neanche la fiducia riposta nel re giusto, Malcolm, può durare, perché quella corona è avvelenata, e i bambini hanno le ore contate: il figlio di Macbeth è morto-il film si apre con il funerale del bimbo- e tutti gli altri dovranno perire.
Il Macbeth di Nesbø assomiglia più a quello di Kurzel anche nel finale, nella disillusione che ripropone. Chissà che Nesbø non ne tiri fuori un film, com’è successo per L’uomo di neve.