L’elogio dell’incostanza: “«Che io sia la tua speranza, non la tua disperazione, perché proprio come un lieve attacco di vaiolo segna il volto d’un uomo, ma lo lascia per sempre immune dal morire di quella malattia, così l’incostanza, la volubilità, un periodico cader degli entusiasmi, seppure è un vizio, può preservare l’uomo dalle indecisioni paralizzanti».”
Un amore sfortunato: «Come mi sposerò, se l’uomo che più amo ha avuto il cattivo gusto d’essere mio fratello? Cosa dicono i libri a Cambridge, Eben? Vi fu mai ragazza più sfortunata?».
Un lettore disperato: “«Da quel giorno io non fui più un marinaio ma uno studioso. Lessi tutti i libri che riuscii a trovare sulla nave e in porto, barattai i miei panni, impegnai la paga per libri di qualunque argomento, e li rilessi più e più volte, quando non se ne trovavano di nuovi.”
Ritorna in libreria dal 29 novembre Il coltivatore del Maryland di John Barth (Minimum fax 2024, pp. 1106, € 25) con la traduzione geniale di Luciano Bianciardi e la prefazione di Giordano Meacci.
Alla fine del diciassettesimo secolo, Ebenezer Cooke, Poeta Laureato d’Inghilterra, viene inviato nel Nuovo Mondo con due missioni: rivendicare la piantagione di tabacco del padre e creare un epico poema sulla vita nel Maryland. La sua avventura si trasforma in un viaggio mozzafiato tra naufragi, pirati, tribù indigene e misteri antichi, tra cui una storia segreta di Pocahontas e una ricetta magica. Mentre affronta tentazioni e lotta per preservare la sua innocenza, Cooke si immerge in un mondo ricco di vizi e meraviglie. Il protagonista, “fornito più d’ambizione che di talento, eppure più di talento che di prudenza”, naviga tra le intricate acque della satira e della poesia, giocando con il suono della lingua madre piuttosto che con il suo significato.
Riscoprire Il coltivatore del Maryland di John Barth è come immergersi in un oceano letterario dove ogni onda è una pagina e ogni corrente è una trama. Il libro è un capolavoro postmoderno che unisce virtuosismo linguistico e profondità filosofica. Barth esplora temi come l’innocenza, la conoscenza e la responsabilità con un approccio divertente e intellettualmente stimolante.
Le mille e più pagine del libro si sostengono in un equilibrio precario tra realtà e finzione, rendendo ogni passaggio un rinnovato invito alla riflessione. È come se ogni capitolo fosse un invito a esplorare non solo il Maryland del passato, ma anche il vasto territorio del romanzo e delle sue possibilità.
Con Il coltivatore del Maryland, Barth non solo racconta una storia, ma scolpisce un monumento alla grande letteratura, invitando i lettori a perdersi e ritrovarsi nelle sue pagine. Questo libro è un’opera che trascende il genere romanzesco per diventare un’opera d’arte che sfida e rinnova la nostra percezione di ciò che la letteratura può essere. È un libro per chi ama la letteratura che sfida, diverte e illumina, tutto in una volta. Un must per ogni bibliofilo che si rispetti.
Carlo Tortarolo
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Si presenta il poeta, e lo si differenzia dai suoi simili
Negli ultimi anni del diciassettesimo secolo si poteva incontrare, fra i tonti e i matti dei caffè di Londra, uno stangone allampanato di nome Ebenezer Cooke, fornito più d’ambizione che di talento, eppure più di talento che di prudenza, il quale, come i suoi compagni di follia, che avrebbero dovuto frequentare Oxford e Cambridge, aveva trovato più divertente giocare col suono della lingua madre che faticare sul suo significato, e perciò anziché applicarsi ai travagli del sapere, aveva imparato l’estro del verseggiare e macinava quinterni di distici alla moda del giorno, spumeggianti di Giovi e di Juppiteri, clamorosi di rime stridenti, incordati di similitudini tese fino al punto di rottura.
Come poeta, Ebenezer era né migliore né peggiore dei suoi simili, nessuno dei quali lasciò dietro di sé cosa più nobile della propria discendenza; ma quattro cose lo distinguevano da loro. La prima era l’aspetto: scialbo di capelli e d’occhi, ossuto e smunto, sorgeva, anzi pendeva, per diciannove spanne d’altezza. I suoi vestiti erano stoffa buona ben tagliata, ma stavano appesi al corpo come vele orzate su un’alberatura lunga. Un airone d’uomo, magro di membra e di becco lungo, passeggiava e sedeva in positura slogata; ogni sua posa era una sorpresa angolare, ogni suo gesto una mezza frustata. C’era inoltre una scompostezza nel suo viso, quasi che i suoi tratti andassero male insieme: il becco d’airone, la fronte di cane lupo, il mento puntuto, la bazza a lanterna, gli occhi azzurri slavati, le ossute sopracciglia bionde, avevano ciascuno un’anima sua, andavano per la loro strada e assumevano pose strane. Si muovevano ciascuno indipendente dal resto e si ricomponevano in configurazioni nuove, che spesso non avevano rapporto alcuno con quel che tu prendevi per il suo umore del momento. E queste configurazioni avevano vita breve, perché come anatre inquiete i tratti del suo viso s’erano appena composti e zac, si dilavavano, e zic, come frullavano, ciascuno per sé, e nessuno avrebbe saputo dire cosa c’era dietro.
La seconda era l’età: mentre la maggior parte dei suoi complici di rado avevan passato la ventina, Ebenezer, all’epoca di questo capitolo, era più vicino ai trenta, eppure non un briciolo più saggio di loro, e con sei o sette anni di scusa in meno per condividere la loro follia.
La terza era la sua origine: Ebenezer era nato americano, anche se non aveva visto il suo luogo natio dalla primissima infanzia. Suo padre, Andrew Cooke Secondo, della parrocchia di St. Giles ai Campi, contea del Middlesex – un vecchio libertino rosso in viso, bianco di denti, greve di fiato, con l’occhio di selce e il braccio appassito – aveva trascorso la giovinezza nel Maryland come agente di un fabbricante britannico, come era stato suo padre prima di lui, e avendo occhio acuto per le merci e più acuto ancora per gli uomini, aveva aggiunto alla proprietà dei Cooke, all’età di trent’anni, mille acri di bosco buono e di terreno arabile sul fiume Choptank. Il punto in cui giace questa terra egli lo chiamò Cooke’s Point, e la piccola villa che ci costruì, Malden. Si sposò tardi e concepì due gemelli, Ebenezer e sua sorella Anna, la madre dei quali (quasi che una gettata di tale disordine avesse crepato la forma) morì nel dar loro la luce. Quando i gemelli ebbero quattro anni appena, Andrew ritornò in Inghilterra, lasciando Malden nelle mani di un soprastante, e quindi si impiegò come mercante, mandando i suoi fattori alle piantagioni. I suoi affari prosperavano e i figli erano molto ben forniti.
La quarta cosa che distingueva Ebenezer dai suoi soci di caffè era il tratto: anche se nessuno di loro aveva la fortuna d’un talento maggiore del necessario, tutti gli amici di Ebenezer si davano, quand’erano insieme, grandi arie, declamando i loro versi, denigrando tutti i poeti ben noti del loro tempo (e ogni membro della loro cerchia cui capitasse di non trovarsi presente), vantando le loro conquiste amorose e le prospettive di successo imminente, e altrimenti comportandosi in maniera tale che, se tutti gli altri tavoli del caffè non avessero ostentato un’analoga manica di bellimbusti, essi si sarebbero resi assai fastidiosi. Invece, Ebenezer, anche se il suo aspetto metteva fuor di questione la sua inevidenza, era portato a essere taciturno e poco dimostrativo. Era persino freddo. A parte i non frequenti scoppi di garrulità, di rado si univa alle chiacchiere, ma pareva in larga misura soddisfatto di vedere gli altri uccelli far mostra delle proprie penne. Taluni prendevano questo riserbo per un segno del suo disprezzo, e perciò ne erano o intimiditi o adirati, secondo il grado della fiducia che avevano in se stessi. Altri lo prendevano per modestia; altri per timidezza; altri per distacco artistico o filosofico. Se in realtà fosse stato sintomo d’una di queste cose, non ci sarebbe storia da raccontare; in verità, comunque, questa maniera del nostro poeta nasceva da qualcosa di assai più complesso, che ben giustifica il racconto della sua infanzia, delle sue avventure e del suo trapasso.