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John Cheever. Il nuotatore (1964)

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C’è un nesso silenzioso tra freddo e solitudine nella parabola discendente di Neddy Merrill. È lui il nuotatore del titolo, che in una splendente domenica mattina di mezza estate decide di percorrere tutta la contea nuotando attraverso le quindici piscine che separano casa Westerhazy da casa sua. Se volete dargli un volto, immaginatelo con i capelli corti sul punto di ingrigirsi e l’espressione di fiera salute sulle rughe tracciate con un punteruolo di legno del volto cinquantacinquenne di Burt Lancaster. È lui il protagonista di Un uomo a nudo, il film del 1968 che Frank Perry (con l’aiuto di Sidney Pollack) ha tratto da questo racconto. E se avete ancora qualche dubbio riguardo alla sua virilità, guardatelo con attenzione quando «quel mattino era scivolato giù dalla ringhiera di casa sua, dando poi una pacca sul sedere sulla statua in bronzo di Afrodite sul tavolino nell’atrio mentre trotterellava verso l’odore di caffè della sala da pranzo». È giovanile, muscoloso e aitante nella sua esuberanza spudorata, non ancora scalfita dalle intemperie del tempo: di tutti i tempi possibili – fisico, cronologico, climatico, psicologico –, come sperimenterà nell’arco di una sola giornata. Quando senza una ragione precisa prende la decisione di accingersi all’impresa, corteggiando la fortuna che ha gli occhi del sole mattutino, si sente «un personaggio leggendario»: e non diversamente appare agli amici, tutti più o meno mezzi sbronzi dalla sera prima, e agli occhi della moglie. Anzi, lo chiamerà proprio come lei il lungo fiume immaginario di piscine che lo condurrà verso casa, Lucinda. Ora che il viaggio di Neddy ha inizio, prestate attenzione a come cambiano gli elementi circostanti in un crescendo di indizi e metafore. Le nuvole lentamente affollano il cielo e si preparano a deflagrare in burrasca; dalla calma rilucente di una visione al di là del tempo, l’acqua della piscina, sempre più fredda, si tinge di colori cupi; la natura rigogliosa si immelanconisce delle prime avvisaglie d’autunno; più avanti cambieranno anche le costellazioni del cielo. Almeno per ora le persone non cambiano, sono ancora ospitali e accoglienti: ma bastano questi segnali a incrinare di sospiri – è la stanchezza, la fatica di risalire issandosi con le braccia sul bordo della piscina non è più un gioco da ragazzi – la sicurezza dell’«esploratore». Alla fine di ogni vasca nella piscina di turno, Neddy beve. Gli offrono gin o whisky, e lui continua a bere. Anche il suo «sfolgorante sorriso» assume una piega diversa, un po’ spaesata nel districarsi tra memoria e immaginazione: la mappa mentale che l’ha guidato nel suo viaggio sin qui. È giunto quasi a metà, quando «improvvisamente si fece buio». La spavalderia è fiaccata da «un assurdo senso di delusione» davanti alla piscina svuotata dei Welcher. E qui si affaccia per la prima volta il pensiero impotente del narratore inattendibile in cui ci ha sprofondato Cheever. Il cartello in vendita fuori dalla casa innesca una prima, inquietante ammissione, anzi, un dubbio agitato nella domanda sul funzionamento stesso della memoria di Neddy, se si difende con un meccanismo di rimozione dei ricordi sgradevoli o se sta perdendo il senso della realtà. Non a caso la cesura tra la prima e la seconda parte del racconto è marcata dallo spazio di una riga bianca. Qui il viaggio, e con esso la direzione della vicenda, si sdoppia. Fino a questo momento la freccia narrativa era puntata verso la casa di Neddy, e la domanda di fondo se il protagonista avrebbe portato a buon fine l’impresa. Ora – scoperto in una nudità di colpo ridicola sul ciglio della statale da attraversare, trasformato in «una figura patetica», «deriso, beffato, bersagliato perfino da una lattina di birra», privo di dignità e di senso dell’umorismo per essere all’altezza della situazione – si trova nel mezzo dell’insensatezza di un’impresa da cui non può più tornare indietro, in un viaggio che «può mettere a repentaglio la propria vita». Ci vuole un’altra pagina perché lo sdoppiamento si compia. Sono le parole della signora Halloran ad annebbiare le ultime certezze di Neddy. Quando la sente dire: «Ci è dispiaciuto immensamente sapere di tutte le tue disgrazie», lui non capisce, non sa cosa sia capitato alle sue quattro «povere bambine», non ricorda nemmeno di avere venduto la casa come afferma lei. Pur continuando a procedere fisicamente in avanti, nella sua testa scombussolata dall’alcol la ricerca della verità procede a ritroso, si muove a tentoni in un passato incompiuto, in balia di una memoria che non sa attribuire una storia alle prove (e ai presagi) che lo incalzano. La divaricazione spazio-temporale assume una valenza metafisica. Al realismo dell’impresa, accelerato dall’avanzare innaturale delle stagione, si contrappone una caduta, ormai sotto gli occhi di tutti, in un passato in cui si annida la seconda domanda narrativa – che cosa è accaduto veramente a Neddy Merrill? –, dalla quale non avremo una risposta certa. Com’è possibile che abbia perso peso in un solo pomeriggio, si interroga smarrito. «Aveva freddo e si sentiva stanco.» Così la solitudine si è consolidata in uno stato fisico. Nulla è più come prima. Le persone che incontra sono diventate ostili, persino scortesi con la loro «aria bellicosa». Viene maltrattato dai Biswanger nel pieno di uno di quei cocktail che per anni aveva puntualmente disertato con Lucinda. Persino il barista lo umilia, decretando lo «scadimento del suo rango sociale». Ned apprende da Grace, che ormai parla apertamente alle sue spalle, di essere andato in bancarotta da un giorno all’altro e che già un’altra domenica si era presentato ubriaco chiedendo soldi. Nella casa successiva viene liquidato da una vecchia amante, neanche lei vuole seccature. L’unica verità che gli è dato di sapere, e che è dato di sapere a noi lettori, la ascoltiamo direttamente dalle parole sprezzanti degli interlocutori di Ned, che per la prima volta risale dalla scaletta della piscina, e piange. «Infelice, infreddolito, stanco e sgomento» si immerge nell’acqua gelida dell’ultima piscina, per raccogliere un «trionfo senza senso». È in queste condizioni che si ritrova davanti a casa sua. Sono poche le domande che ancora lo dividono dalla penosa realtà, e pochissimi i dettagli per capire che la casa è abbandonata da tempo. È implacabile – e intorno all’implacabilità prende forma il fantasma del perturbante – la maestria con cui Cheever manipola i piani di realtà prendendosi gioco della nostra credulità, per risvegliarci disarmati davanti all’altra storia che non ha raccontato. C’è il piano apparentemente imparziale del narratore in terza persona, che forza gli elementi realistici in una combutta di segnali discordanti – quasi dei presagi retrospettivi, perché guardano al passato – fino alla dilatazione temporale di una domenica lunga almeno un anno, e intanto scolpisce con ferocia minuziosa riti sociali, vizi e perbenismo della medio-borghesia americana dei primi anni Sessanta (quant’è perfetto l’attacco, tutto giocato sull’«Ho bevuto troppo» dei personaggi del ricco sobborgo residenziale in cui è ambientata la vicenda, “girato” con una panoramica che dalla scena d’insieme progressivamente stringe sul volto del protagonista). C’è il piano inattendibile della consapevolezza illusoria di Neddy, tenuto all’oscuro della realtà dalla sua stessa vergogna e obnubilato dall’alcol, incapace di accettare l’inesorabile caduta che è già avvenuta realmente e che avviene di nuovo metaforicamente. L’utilizzo della tecnica dell’indiretto libero, in cui la compromissione tra la voce dello scrittore e i pensieri del protagonista imperversa in un’ambivalenza priva di filtri lessicali, genera un ulteriore piano di realtà. Siamo entrati nel dominio del simbolico, dove tempo interiore e tempo interiore (ma sono tante le coppie in ballo: scrittore e protagonista, realtà e metafisica, memoria e immagi
nazione) confluiscono in una domenica lunga quanto una vita. La letteralità della storia ha lasciato il posto alla parabola del fallimento del Sogno americano.  Com’è lontana – sono trascorse stagioni, infatti – la distinzione dei due piani al principio del racconto. La felicità di immagini era ascrivibile allo sguardo lucidissimo dell’autore: pensate alla somiglianza delle nuvole cuneiformi con città come Lisbona e Hackensack, l’accostamento di una città universalmente nota con una sconosciuta che (forse, perché non viene più menzionata) è la stessa in cui si svolge la vicenda. O a Neddy paragonato a «una giornata d’estate, in particolare alle sue ultime ore» che malgrado sia privo di racchetta da tennis o borsa da vela «evocava un’immagine di gioventù sportiva e tempo clemente». Saranno proprio le forze fisiche e il tempo a mutare. La distanza di Cheever si accorcia dallo smarrimento crescente di Neddy, tanto da immedesimare lo stile in questo annaspare spogliato (metaforicamente e fisicamente: alla fine in costume è soltanto ridicolo) di punti di riferimento. Così, la vista dell’addome senza ombelico del suo amico Eric appartiene più al tenue delirio di Neddy che allo stile analitico di Cheever. In primo luogo perché è lui stesso a esserne colpito osservandolo con disgusto, in secondo luogo perché le fantasie angoscianti che suscita sono direttamente legate alla sua perdita di memoria, dato che non si ricorda nemmeno che l’amico era malato. Se, come recita il Confiteor, si può peccare in «pensieri, parole, opere e omissioni», allo stesso modo lo scrittore ha a disposizione questi quattro elementi per muoversi all’interno di una storia. Tutto sta nell’intelligenza con cui si costruiscono gli equilibri. E l’intelligenza, in letteratura, significa prima di tutto capacità di creare rapporti. Ma l’evoluzione dei rapporti porta a cambiare gli equilibri da cui si era partiti. Così, sullo scheletro della metafora sportiva, John Cheever non solo ha messo in scena la trasformazione del suo personaggio, ma cambiando il modo di raccontarlo (accentuando gradualmente il peso delle omissioni che al contempo sviliscono l’attendibilità dei pensieri, svuotano di significato le opere e si affidano alle parole di sconosciuti: scivolando di fatto da osservatore della realtà a complice del delirio di Neddy) ha portato a compimento la trasformazione della propria scrittura, che alla fine diventa tutt’uno con il punto di vista del suo protagonista inerme: con l’espressione disfatta negli occhi azzurri d’acqua di Burt Lancaster, imprigionato fuori dal cancello di casa sua.

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