In Riaffiorano le terre inabissate, edito da Atlantide, tramite una costruzione linguistica potente e al contempo delicata, quasi artistica, John Harrison accompagna i lettori in un irrefrenabile flusso di coscienza che per temi e metafore si lega alla liquefazione stessa delle esistenze.
Le terre inabissate riaffiorano è un romanzo atipico, sfuggente e che è impossibile catalogare o restringere in qualsivoglia griglia di valutazione. É semplicemente prorompente. Shaw è un uomo di mezz’età, scappa dalle sue stesse crisi nervose e dalla claustrofobica esistenza londinese fino a quando in un pub incontra Victoria, una donna spezzata. I due finiscono per perdersi in un’enigmatica relazione, fatta di domande, misteri e silenzi abnormi, nelle loro vite si insinua però un libro del periodo vittoriano, The Water Babies di Charles Kingsley.
John Harrison scrive un romanzo dal disincanto anti-pastorale, un weird psicogeografico dove i labirinti urbani hanno un nuovo significato, e inscena dentro i protagonisti e nei lettori dubbi ontologici; la nostra esistenza viene interrogata, ci domanderemo se scegliere l’oscurità alla luce. Fuori incombe la cospirazione di un mondo abissale.
Cristiano Saccoccia
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Dopo i cinquanta Shaw aveva attraversato quello che, ripensandoci, definiva un periodo difficile. Fino a quel momento la sua vita adulta era stata perfettamente normale. Se l’era prefissata, la normalità, e forse quello era stato il problema. Comunque, cinque anni di una vita priva di forma erano stati impiegati in poco e niente, salvo compattarsi poi nella memoria come pezzi di uno scrigno magico che nessuno mai più sarebbe riuscito a riaprire. Ritrovava momenti di piena lucidità a cena, per esempio in un ristorante cinese al primo piano, mentre parlava con gente che non conosceva e guardava la strada piena di motociclette nuove fiammanti. Poi le cose tornavano a sfuggirgli, e per una settimana o due le viveva tenendole a una certa distanza. Conobbe una donna – tra le molte che in quel periodo, istintivamente, finivano per respingerlo – che più di ogni altra si avvicinò a stabilire cos’era stato di lui. Si chiamava Victoria e ogni volta che si presentava a qualcuno ci teneva a precisare che lavorava all’obitorio. «Non è niente di che», replicava distratta a prescindere dalla risposta, «ma del resto il mio primo cadavere l’ho visto a tredici anni». Era una battuta efficace, soprattutto al pub, a Hackney, in un lunedì sera piovoso. Victoria era figlia di un dottore e aveva già passato i quaranta; aveva i capelli rosso spento, gli occhi scavati e l’umorismo studiatamente insipido dei romantici ad alto funzionamento. Era una persona di quelle che hanno una coscienza soltanto parziale del proprio nervosismo; quando le sembrava di percepirlo lo proiettava sul prossimo: «Di’ la verità, non hai tempo da perdere con me, vero? Te lo sento nella voce», diceva. Sulle prime Shaw ne fu disorientato. Occorreva una certa disciplina per non lasciarsi coinvolgere e influenzare, per evitare di realizzare la profezia gettando sguardi all’orologio. La sera in cui li presentarono lei stava bevendo parecchio, ossessionata da una cosa che le aveva detto una volta suo padre riguardo a una sottospecie di persone che appena nate sembravano pesci. «Davvero», disse. «Pesci». Aprì gli occhi, li spalancò. «Non ti sembra pazzesco?». Shaw non sapeva come prenderla. «Questa non l’ho mai sentita», rispose, e fu sincero. Gli interessava di più l’obitorio. «Quanto è strano, invece, passare le giornate coi morti?». A questo lei rispose con un’inspiegabile acredine e quasi alludendo a chissà quale evento cardine della sua vita: «Almeno loro non controbattono»