Trovarescoprireindovinare quello giusto. E poi spiccare il volo, librarsi sulla massa. Non certo sulle ali di una gloria “artistica” raggiunta o disegnando le rassicuranti traiettorie autocompiaciute dell’ennesimo buon pigmalione dell’industria culturale. No, alzarsi invece in cielo sulla spinta propulsiva di un molto più terragno lievitante umano, che chiameremo “tre esse”: soldi status successo.
È questo a muovere fin nei suoi ingranaggi più minuti la quotidianità di Steven Stelfox, giovane “volpe” del music biz britannico alla perenne caccia della next big thing a sette note che faccia definitivamente decollare la sua carriera di manager nei radiosi anni Novanta del secolo passato. Non è interessato a tirar fuori i prossimi Radiohead o i nuovi Oasis, per lui andrebbero bene anche quattro criceti stonati. L’importante è che siano in grado di far dare di matto ad uno stuolo di zucche vuote, giovani e meno giovani, inducendole a fiondarsi nei negozi di musica di ogni angolo del globo. E a chi questo sembra un lavoro facile e interessante e forse anche un po’ creativo, Steven risponde con una logica d’azione e di pensiero che contempla un solo comandamento, il risultato. Di tutto il resto, bellamente, se ne fotte. Se ne fotte delle star (e, peggio, delle aspiranti tali) e dei loro vezzi da persone tormentate e profonde. Se ne fotte delle loro stupide manie autodistruttive e del loro perenne pavoneggiarsi sull’orlo di un qualche burrone esistenziale. Se ne fotte, più in generale, di loro proprio come esseri umani in quanto tali. Il loro compito è, anzi, deve essere uno solo: scalare le classifiche, arrivare più possibile vicino alla cima, gonfiando le tasche di chi li ha lanciati e, soprattutto, di chi li ha scoperti.
Chiaro che quando i presupposti di un impiego sono questi, tutto il resto perde di importanza. Non c’è posto per legami personali e, figuriamoci, per carinerie con i colleghi. Con loro, anzi, ci si deve comportare come i peggiori sciacalli, come i più impietosi tra i rapaci. Zac, cogliere ogni occasione di difficoltà del proprio vicino di scrivania e fargli le scarpe! Stando attenti, magari, a procurargli più male possibile, meglio ancora se senza un briciolo di misericordia. E Steven è bravo, piuttosto bravo in questo suo mestiere. Magari non sempre le cose girano al meglio. Come a tutti, capita qualche volta anche a lui di prendere un’imbarcata su quel gruppo o su quell’aspirante cantautrice d’élite, ma lui sa navigare a vista, divorato da una fame di arrivare e da una psicosi d’autoaffermazione che non hanno limiti. Come a livello morale nessun limite può avere uno che si trova a dover portare a casa il pane in questo modo: ama, infatti, la cocaina come poche cose al mondo. E le belle stanze d’albergo. Il lusso sfrenato. Ama l’alcol a fiumi e ogni variante, soprattutto quelle più sconce, in materia di sesso. È un predatore di professione e, da buon appartenente alla sua specie, non lascia scappare occasione per prendersi tutto quello che può. Prima possibile, a qualsiasi mezzo.
E quando la situazione rischia di farsi veramente complicata, quando nella giungla ogni fiera affamata si mette sulle tracce della propria pista perfetta e si deve andare allo scontro diretto, ogni astuzia è buona per aver ragione dell’avversario. Ogni occasione è quella giusta per strappare all’altro un altro lembo di terra. Ogni momento, soprattutto, è quello giusto per piazzare la zampata a tradimento che può risultare decisiva.
Per noi lettori italiani, questo “Uccidi i tuoi amici” di John Niven (Einaudi, Stile libero, 2019, pp 352, € 18,50) arriva a oltre dieci anni di distanza dalla sua prima pubblicazione oltremanica e dopo essere già stato portato sul grande schermo da Owen Harris. Ma, come recita il famoso proverbio, “meglio tardi che mai”.
Sì, perché è proprio da queste pagine che prende origine la messa a punto di uno stile che nei successivi romanzi, a partire dall’indimenticabile “A volte ritorno”, ha reso il suo autore una vedette della nuova narrativa internazionale.
Facile intuirne i motivi: se la sublime ironia che permea i suoi lavori, in questa specie di lungo e adrenalinico delirio su sfondo musicale appare ancora da sbozzare in più punti, nondimeno si riesce a familiarizzare immediatamente con una vis scrittoria improntata alla velocità d’esecuzione e alla capacità di fotografare senza nessuna lungaggine o incertezza. E se il rimando a certo Easton Ellis appare evidente anche per lo svolgimento della trama e il compiacimento nella descrizione delle scene più macabre, risulta però altrettanto istantaneo il debito stilistico nei confronti del connazionale Irvine Welsh, soprattutto nell’atteggiamento solipsistico del protagonista che, con una resa stilistica certo meno preziosa e originale, ricorda molto l’indimenticabile Robbo, il nero antieroe che furoreggia ne Il Lercio. Dove, però, quest’ultimo suggeriva una costante tendenza ad una serrata autointrospezione (da cui anche il geniale mcguffin autofagocitante che caratterizzava -anche visivamente- quel capolavoro), Stelfox indulge molto più apertamente nel bozzetto e nella pura azione. Non certo per semplice vezzo autoriale o, peggio, per povertà di caratterizzazione, ma per un’evidente scelta da parte di Niven di non grattar via niente dalla descrizione della superficialità del mondo di cui ci parla: non bisogna dimenticare, infatti, che lo scrittore gaelico, prima di affermarsi come tale, ha lavorato diverso tempo nel settore, arrivandone a conoscere le pieghe più recondite e meno edificanti, che in questo “Uccidi i tuoi amici” sono state irrobustite fino all’estremo ma non tese fino all’inverosimile. Questo vuol dire che, a fronte di una capacità dientertaining puro scatenata, quello che leggiamo ha anche l’indubitabile obiettivo di voler denunziare la “plastica e il fango” che allignano dietro un mondo che appare tutto luci e paillettes. Niente di nuovo, magari, ma è chiaro che a fare la differenza in questo contesto è la conoscenza dell’argomento e una reattività di parole scritta che, come si accennava, sembra già avere pochi eguali. Certi passaggi legati alla contrattualizzazione degli artisti e/o certi trucchetti propri dei migliori navigatori del mare monstrum dell’industria musicale (volendo poi tacere la descrizione puntualissima dei brainstorming aziendali, o dei backstage dei concerti, o ancora delle “fiere”-incontri di settore) sono resi con un’accuratezza non meno accattivante rispetto alle trovate verbali o di fabula più sensazionalistiche. Questo non ha certo la pretesa di creare, oltre ad un’opera difiction, anche uno scritto che abbia qualche valenza, diciamo così, spiccatamente documentaristica, ma è certo che l’istantanea di ciò che va a rappresentare, spesso, non fa neanche una piega, non perde neanche la sfumatura di un colore. Ed è forse proprio in questo nitore, in questa tavolozza così completa, che risiede la sua peculiarità più apprezzabile. Che, unita alla gagliarda, inabbattibile capacità di creare ritmo e intreccio di Niven, va da sé, rendono l’acquisto di questo libro decisamente consigliato a chi non lo conosce e certo obbligatorio a tutti i suoi fan di lungo corso, che di certo accarezzeranno rapiti la costa del “capostipite” di una bibliografia in grado di aver generato un culto per il suo autore da antica divinità egiziana.