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Jon Fosse. Un bagliore

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È autunno inoltrato e un uomo sta percorrendo in auto una strada che non conosce. Senza ragionevole motivo, né vera volontà, abbandona un rassicurante paesaggio di campagna per procedere in un territorio sempre più spoglio e inquietante, punteggiato da abitazioni abbandonate e in sfacelo. Spinto da una potente, obnubilante pulsione, finisce per inoltrarsi in un bosco, dove le ruote della sua auto rimangono bloccate nel fango.  Deve prendere a questo punto la prima vera decisione della serata, l’unica cosciente e sensata: abbandonare la macchina e avventurarsi in cerca di soccorsi. La notte però sta scendendo e ha da poco iniziato a nevicare. Oltre a una disperazione attutita, ottenebrata dall’assurdità della situazione in cui non comprende come sia riuscito a cacciarsi, ciò che lo spinge è la presenza di un indefinibile bagliore che percepisce in lontananza, forse salvezza, forse pericolo.

Potrebbe essere questo l’inizio di uno scontato thriller, uno di quelli portati al cinema migliaia di volte. Jon Fosse invece lo trasforma in un breve, denso viaggio spirituale, più che di scoperta proiettata verso un’esteriorità che pare ingannevole, di riflessione introspettiva. In quel bagliore accecante, il protagonista avrà due importanti incontri: con Ie figure dei genitori, stagliate limpide eppure sfuggevoli, oggetto di domande rimaste sospese e che ora escono in superficie, affastellandosi, e con uno sconosciuto perfettamente vestito eppure a piedi scalzi sulla neve.

Ma saranno veri, questo disorientamento, la perdita di sé, i personaggi che verranno a circondarlo, inquisitori e consolatori al tempo stesso? Ci si potrà fidare di questo racconto che la voce narrante dice di rielaborare solo il mattino dopo, a posteriori? La linea di demarcazione fra il reale e il sogno è magistralmente tenuta labile e permeabile.

Sono solo poco più di sessanta pagine queste de Un bagliore, ultimo romanzo del premio Nobel per la Letteratura 2023 Jon Fosse, pubblicate da La nave di Teseo e tradotte da Margherita Podestà Heir in uscita il 4 giugno, in cui ritroviamo felicemente un monologo trascinante e ipnotico che va letto d’un fiato.

Novello Ibsen come è stato più volte definito – anche se la sua produzione è stata accostata pure a quella di Beckett, paragone forse più calzante, soprattutto nel rifiuto di ingranaggi linguistici logico-consequenziali –  Fosse compie anche qui il piccolo miracolo di svelamento di stati d’animo perfettamente descritti e al tempo stesso di conservazione di un’aura di insondabile, di mistero dell’Uomo.

Gli incontri fondamentali che sconvolgono il suo protagonista e che avverranno nel mistico bagliore nascosto nel fitto di una foresta – con una Natura presenza predominante e invasiva – potrebbero essere interpretati in chiave cristiana: Fosse è dichiaratamente cattolico praticante, le sue figure piene di luce ricordano allegorie della tradizione cristiana.

È un’interpretazione plausibile, e la più immediata, facile, sorretta dall’accumulo ritmico di parole, incantatorio, prossimo alla preghiera.

Ma la grandezza di Fosse, puntellata dalle immagini che si dispiegano e procedono per uno studiato accumulo, sta proprio nel lasciare libero il lettore di trovare un suo proprio significato. In definitiva, è prosa che rifugge comodi incasellamenti di genere. E che ci consegna un senso di meraviglia sospesa, poetica e di sollievo, e forza: rifiutarsi di soccombere alle avversità, alla neve, al freddo, alla solitudine nel bosco (di ogni bosco, anche urbano), ai pericoli possibili, recuperare solo il mattino dopo le immagini della giornata precedente e riportarle sul foglio all’alba, passata la notte oscura, sfiorate la morte propria e quella altrui nell’immagine delle persone care, è il processo che dona il bagliore, suggerisce Fosse. Lo fa come sempre con una prosa limpida che riesce a scorticare le sensazioni, vivisezionarle ed esacerbarle, soprattutto arrivando in questo romanzo breve a raccontare perfino il silenzio, il suo spessore, tutto il suo esserci necessario.

 Anna Vallerugo 

 

 

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