Quello che Vi presentiamo è un dialogo ad oggi inedito in Italia tra gli scrittori americani Jonathan Lethem e Paul Auster che si interrogano su letteratura e cinema, libri e film mettendo in risalto i nuovi limiti della democrazia degli Stati Uniti che proprio nell’arte vedono la loro possibilità ultima di salvezza.
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“Mi pare evidente che il mondo sia abbastanza grande e interessante da permetterti di usare un approccio diverso ogni volta che ti metti a scriverne”. Cose che i romanzi hanno ingoiato: i dipinti, le canzoni, i fax, le donne grasse che gesticolano in maniera melodrammatica. Paul Auster ha cominciato la sua carriera come poeta, saggista, curatore di antologie e traduttore, ma da “Città di vetro” (1985) in poi è stato soprattutto riconosciuto come uno dei nostri romanzieri più sobri, lucidi ed eleganti. I protagonisti di molti dei suoi libri, fra cui “La musica del caso” (1990), “Il libro delle illusioni” (2002) e “La notte dell’oracolo (2003)” sono uomini comuni di città, meditabondi ma gentili, e alcuni sono scrittori o artisti di altro tipo. È facile, per i molti giovani ammiratori di Auster, identificarli, a torto o a ragione, sia con se stessi sia con l’autore che li ha creati. Quando avevo vent’anni e muovevo i miei primi passi nella scrittura, ero senz’altro uno di questi giovani ammiratori. Anni dopo, quando ho avuto la fortuna di conoscere Paul di persona, non sono rimasto deluso. — J.L. (inverno 2004)
La musica
Jonathan Lethem: Che stavi facendo oggi prima che mi presentassi a casa tua?
Paul Auster: Le solite cose. Stamattina mi sono alzato, ho letto il giornale, mi sono bevuto una caraffa di tè. E poi sono andato nell’altro appartamentino che ho da queste parti e ho lavorato più o meno per sei ore. Dopodiché ho dovuto sbrigare un po’ di questioni burocratiche. Due anni fa è morta mia madre e c’era un’ultima cosa da sistemare riguardo alle sue proprietà, una specie di polizza assicurativa su cui dovevo mettere la firma. Quindi sono andato da un notaio per farmi autenticare i documenti e li ho spediti all’avvocato. Sono tornato a casa. Ho letto la pagella di mia figlia. E poi sono andato di sopra e ho pagato un sacco di bollette. Una giornata come tante altre, direi. Un po’ mi dedico al libro che sto scrivendo e un po’ a questioni pratiche e noiose.
jl: Per me, cinque o sei ore passate a scrivere sono più che sufficienti. Anzi, sono proprio un sacco. Se riesco a farne così tante, poi tutto il resto mi dà soddisfazione, mi sembra che abbia perfino una sua grazia. Ma se mi tocca sbrigare le altre faccende quando non ho scritto abbastanza…
pa: Ah, allora è tremendo.
jl: Sì, è una cosa tremenda.
pa: Io ho scoperto che scrivere è un’esperienza che ti assorbe completamente, sia a livello fisico sia mentale, e devo farlo ogni giorno se non voglio perdere il ritmo e restare concentrato. Perfino la domenica, se possibile. Se la domenica non ho impegni con la famiglia, cerco di lavorare almeno al mattino. Ogni volta che faccio un viaggio, resto completamente scombussolato. Se sto via per due settimane, me ne serve almeno una per riprendere il ritmo che avevo prima di partire.
jl: Mi fa piacere che usi la parola fisico. Io ho la stessa fissazione per la continuità. Non è che mi impongo di scrivere quotidianamente un certo numero di pagine o di parole o di ore, solo di lavorare ogni giorno: è questa la mia unica fissazione. E quando un romanzo procede bene, nel lavoro c’è un elemento di fisicità. C’è una componente atletica. Bisogna mantenere alta la qualità della prestazione.
pa: Scrivere per me è un’attività fisica. Ho sempre la sensazione che le parole mi escano dal corpo, non dalla testa. Scrivo a mano, e la penna disegna le parole sulla pagina. Ne sento perfino il rumore mentre le scrivo. Per me gran parte dello sforzo, quando scrivo in prosa, sta nel costruire frasi in grado di cogliere e riprodurre la musica che mi suona in testa. Ci vuole un sacco di fatica, scrittura, scrittura e riscrittura, per far uscire quella musica esattamente come la vuoi tu. Quella musica è una forza fisica. E non solo scrivere libri è un’attività fisica, ma anche leggerli. C’è qualcosa, nel ritmo della lingua, che corrisponde al ritmo del nostro corpo. In un libro il lettore attento trova significati che non si possono articolare a parole, li trova nel suo corpo. Secondo me è questo che tanta gente non capisce della narrativa. La poesia è musicale per natura, e va bene. Ma la gente non capisce la prosa. È troppo abituata a leggere gli articoli di giornale: frasi poco armoniose e puramente funzionali che devono comunicare informazioni concrete, dati, più che descrivere la superficie delle cose.
jl: E da qui nasce il profondo disagio che mi crea la fase della promozione del libro, che consiste in larga misura nella richiesta di parafrasare quello che ho scritto. E il risultato, inevitabilmente, è del tutto privo di musicalità. È come se uno portasse via il corpo dell’opera, ne disegnasse il contorno e ne descrivesse il contenuto.
pa: Non capisco come mai il mondo sia cambiato al punto tale che oggi dagli scrittori ci si aspetta che si presentino in pubblico a parlare delle loro opere. Io lo trovo molto difficile. D’altra parte uno sente di avere una certa responsabilità verso l’editore, verso la gente che sta cercando di vendere il libro. Io ho sempre cercato di limitare le mie apparizioni pubbliche. Non ne faccio molte. Ma ogni tanto mi presto, quasi per dimostrare la mia buona volontà. E spero che poi mi lascino in pace per un bel pezzo. Per esempio, per il mio ultimo romanzo, La notte dell’oracolo, mi sono proprio rifiutato di fare un giro di presentazioni. Non ne avevo la forza.
jl: Kazuo Ishiguro ne parla in modo molto spiritoso, dicendo che è una specie di enorme errore collettivo che tutti gli autori compiono volontariamente, accettando questa prassi. E poi sostiene che dovremmo farla finita, tutti insieme. È una specie di Dilemma del prigioniero. Se uno di noi fa un giro di presentazioni, lo devono fare tutti. Ma se rifiutassimo tutti quanti…
pa: Lui sì che parla per esperienza. Ha fatto una cosa che non ho mai visto fare a nessuno scrittore che conosco. È stato in tour per promuovere un suo libro per quasi due anni di fila. È andato dappertutto, in ogni paese del mondo dove l’avevano pubblicato. Alla fine, probabilmente ci è quasi rimasto secco.
jl: Tu l’hai letto” Gli inconsolabili”?
pa: No, ma vorrei leggerlo.
jl: È uno dei miei romanzi preferiti di un autore vivente. La storia epica e kafkiana di un pianista che arriva in una città per fare un concerto che però sembra non si debba tenere mai. Lo si potrebbe definire il lamento più lungo e amareggiato mai scritto da un autore costretto ad andare in tour per promuovere i suoi libri.
pa: C’è una pagina molto bella, nei diari di Kafka, in cui raffigura uno scrittore immaginario impegnato in una lettura pubblica. Tal dei Tali se ne sta lì sul palco e il pubblico è sempre più nervoso e annoiato. «Solo un altro racconto», dice lo scrittore. «Questo è l’ultimo…» La gente comincia ad alzarsi e andarsene. La porta sbatte in continuazione, ma lui continua a implorare: «Solo un altro, questo è l’ultimo», finché non se ne vanno tutti e lui resta da solo sul palco, a leggere di fronte alla sala vuota.
Il cinema
jl: Mi sembra che ultimamente tu sia riuscito a stabilire di nuovo una relazione prioritaria con il romanzo. Almeno a giudicare dal livello di concentrazione che è evidente nei tuoi ultimi due, e dal fatto che racconti di essere già immerso in un terzo. Mi fa molto piacere.
pa: Sì, immerso, dici bene.
jl: Quando parli dell’impegno totalizzante che richiede la stesura di un romanzo mi trovi pienamente d’accordo. E allora mi domando cos’è successo negli anni in cui sembravi del tutto felice di lavorare nel mondo del cinema. Hai pensato di dover fare un passo indietro e tornare alle tue vecchie posizioni?
pa: Al cinema ci sono arrivato per puro caso. Ho sempre avuto un amore viscerale per i film, tanto che a diciannove o vent’anni pensavo di voler provare a fare il regista. Il motivo per cui non ho intrapreso quella strada è che non mi sembrava di avere la personalità giusta. In quel periodo della mia vita ero afflitto da una timidezza mortale. Non riuscivo a parlare davanti alla gente, e mi dicevo: se sono una persona così silenziosa, cupa, meditabonda, sicuramente non sarò capace di comunicare come si deve con il cast, la troupe e via dicendo. E allora ho abbandonato l’idea. Poi però, paradossalmente, è stato solo dopo aver cominciato a pubblicare romanzi che sono entrato in contatto con il mondo del cinema: perché hanno cominciato a telefonarmi per contrattare eventuali acquisti di diritti, per chiedermi di scrivere sceneggiature originali, e alla fine mi sono lasciato sedurre.
jl: Nei tuoi ultimi romanzi mi è sembrato di vedere un sottile spostamento dal cinema alla letteratura. Mi spiego: tutti e due ritraggono degli artisti. Nel Libro delle illusioni, il personaggio principale è un cineasta, e il lettore incontra lunghe – e bellissime – descrizioni dei suoi film. Nella Notte dell’oracolo, invece, il protagonista è uno scrittore, e leggiamo una parte del suo romanzo ancora in corso d’opera. Questo rispecchia uno spostamento anche nei tuoi interessi?
pa: Voglio chiarire un po’ meglio questa faccenda. Negli anni in cui ho girato film, non ho mai pensato che stavo abbandonando il mestiere di scrittore. Ai due film che ho fatto con Wayne Wang ho dedicato due anni di vita. È stata un’esperienza meravigliosa. Uno dei piaceri più grandi è stato uscire dalla mia stanza per un bel po’, lavorare con altra gente, aprire la mente a modi di pensare diversi. Lulu on the Bridge è stato un caso. Avevo scritto la sceneggiatura per Wim Wenders, ma poi lui è entrato in crisi: non si sentiva in grado di dirigere il film. Su sua richiesta, ho deciso di assumermi io l’incarico. E così, bum, ecco che mi sono partiti altri due anni e mezzo di vita.
Eppure, anche in questo caso, è stata un’esperienza impareggiabile, e sono felice di averla fatta. Poi c’è stato il tour promozionale, molto più spossante della realizzazione del film in quanto tale. Uno pensa che scrivere i libri sia faticoso. Ma i film ti ammazzano. In Giappone mi ricordo di aver fatto quaranta interviste in due giorni. Interviste lunghe, eh, una dietro l’altra, una dietro l’altra. È stato così logorante che mi sono ammalato, sono finito all’ospedale. Per quanto mi piacesse fare film, e per quanto fossi convinto che ci stavo prendendo la mano, ho capito anche che è un lavoro a tempo pieno. Non lo si può prendere come un hobby. Per continuare a lavorare nel cinema avrei dovuto rinunciare alla letteratura, e questo era fuori discussione. Non avevo il minimo dubbio che la mia vera vocazione sia quella dello scrittore. E così, con grande serenità e senza nessun rimpianto, mi sono ritirato dalle scene. Ora non ho più niente a che fare con il mondo del cinema. Ma per tornare al Libro delle illusioni, a Hector Mann e la sua carriera di regista: il fatto è che il personaggio di Hector è nato dentro di me molto prima che cominciassi a dedicarmi al cinema in prima persona. Mi è venuto in mente un bel giorno verso la fine degli anni ottanta o i primissimi novanta, in tutto il suo splendore, col completo bianco e i baffi neri, ma non sapevo cosa farmene di lui. Ho pensato che forse a un certo punto mi sarei messo a scrivere una raccolta di racconti che descrivessero i suoi film muti: per ogni film, un racconto. Me lo sono portato appresso per anni prima che il libro si concretizzasse definitivamente nel romanzo che è ora. C’è chi ha detto: «Ecco, questo è il risultato dal fatto che Auster si è cimentato con il cinema», ma in verità l’idea risaliva a molto prima. L’ultima cosa che mi resta da dire a proposito della mia breve avventura di cineasta è che è raro avere l’occasione, a un’età tutto sommato non più giovane – superata la quarantina, insomma – di imparare qualcosa di nuovo. Di dedicarsi a qualcosa che non si era mai provato a fare prima. In questo senso per me è stata un’esperienza positiva. Mi ha fatto bene passare cinque anni senza scrivere un romanzo. L’unica opera di prosa che ho scritto durante quel periodo è stata Sbarcare il lunario, il mio piccolo saggio autobiografico sul tema del denaro.
jl: È una cosa con cui io mi trovo a combattere proprio in questo periodo. Nel corso della mia vita adulta, non ho mai passato così tanto tempo senza scrivere un romanzo. Ho cominciato a provarci quando avevo diciott’anni.
pa: Anch’io.
jl: Ovviamente all’epoca non valevano niente, ma è un tipo di attività da cui non mi sono più staccato. Però negli ultimi due anni ho fatto una quantità infinita di presentazioni, e poi ho lavorato su due raccolte, una di racconti e una di saggi.
pa: Non c’è mica da vergognarsene.
jl: Grazie. Ma significa che il mio corpo, che per vent’anni era stato abituato a un certo esercizio, come quello di un atleta è abituato a scendere in pista, allacciarsi le scarpe e mettersi a correre, il mio corpo di scrittore si è…
pa: Un pochino atrofizzato.
jl: Sì, atrofizzato. La cosa mi fa un po’ paura. Ho un amico scrittore che ha un’ambizione deliziosamente priva di qualunque imbarazzo. Ha un po’ quell’atteggiamento alla Norman Mailer, la voglia di salire sul ring con Tolstoj. Dice una cosa che mi è sempre rimasta impressa: «Storicamente, tranne rare eccezioni, gli scrittori danno sempre il proprio meglio fra i trentacinque e i cinquant’anni. È l’incrocio fra l’energia giovanile e l’esperienza». Ed ecco che io mi brucio un paio d’anni come se niente fosse proprio quando ne ho appena compiuti quaranta.
pa: Tanto per rassicurarti, ti dico che io sono profondamente convinto che nell’arte non esistano regole. Ogni percorso è diverso dagli altri. Il mio editore francese una volta mi ha detto che uno scrittore ha a disposizione una ventina d’anni, che tutte le sue opere migliori vedranno la luce in quell’arco di tempo. Non è che ci creda ciecamente. Ma la cosa interessante è che per noi è facilissimo smettere di lavorare. Certo, la scrittura è una necessità e spesso un piacere, ma al tempo stesso può essere un gran peso e una fatica terribile.
jl: Che bello sentirtelo dire.
pa: Per quanto mi riguarda, non mi capita certo di entrare nel mio studio e sedermi al tavolino con la sensazione di essere un pugile pronto a sfidare Joe Louis per dieci riprese. Entro in punta di piedi. Rimando. Perdo tempo. Mi metto a fare mille altre cose che in quel momento sono meno urgenti. Nella scrittura ci entro sempre un po’ di traverso, quasi di soppiatto. Non faccio irruzione nel saloon con la rivoltella pronta. Altrimenti, con ogni probabilità mi sparerei su un piede.
Il luogo
jl: Mi hai fatto tornare in mente una cosa che ho pensato quando hai detto che andavi a lavorare in quell’appartamentino. Spero che non ti dispiaccia se ti dico che hai una casa splendida. Il tipo di casa da cui, nei miei sogni, io non uscirei mai. Ci metterei uno studio e scriverei sempre lì. Tu invece hai fatto in modo di uscire di casa. Questo movimento trasversale e furtivo, un po’ da granchio, mi sembra una grande passione degli scrittori. O quantomeno, io mi ci identifico molto.
pa: È complicato. Quando abitavamo in una casa affollata, con i bambini, non avevo un posto per lavorare, perciò mi sono preso un monolocale tutto per me. Ci ho lavorato per sei o sette anni, poi abbiamo comprato questa casa qui. In origine al piano terra c’erano degli inquilini, ma alla fine se ne sono andati e ho deciso di spostare lì il mio quartier generale. Per diversi anni ho lavorato felicemente al piano di sotto. Ma l’altr’anno abbiamo cominciato a fare dei lavori di ristrutturazione. Siamo stati invasi dagli operai della ditta: falegnami, idraulici, elettricisti, pittori. C’era troppo rumore. Il campanello suonava di continuo. Mi sono reso conto che non riuscivo a concentrarmi, e ho pensato che forse mi conveniva tornare alla mia vecchia abitudine. Nove mesi fa o giù di lì ho trovato un appartamentino qui nei dintorni e mi ci trovo bene, proprio bene. Questa è una casa magnifica. È frutto dello straordinario gusto di Siri [Siri Hustvedt, la moglie di Auster, N.d.T.], che ha un occhio incredibile per l’armonia e per l’ordine. Però penso che mi faccia bene lavorare in un ambiente più spartano, meno accogliente. Sono sempre stato una sorta di Calibano. Mi sento più a mio agio negli spazi spogli.
jl: Per me una sorta di equivalente sta nel fatto che mi piace avere un rapporto indiretto con i luoghi. Tutti, comprensibilmente, pensano che mi sia ritrasferito a Brooklyn per scriverne, ma strano a dirsi, il grosso dei libri ambientati a Brooklyn l’ho scritto a Toronto o a Saratoga Springs o nella hall di qualche albergo tedesco. Mi sembra di riuscire a scrivere meglio di Brooklyn da una certa distanza, guardandomi indietro, sull’onda della nostalgia.
pa: Come Joyce e Dublino. In effetti, anch’io al momento sto scrivendo di Brooklyn. Nel mio ultimo libro, La notte dell’oracolo, c’era la Brooklyn di ventidue anni fa. Adesso parlo della Brooklyn di oggi. Posso anche dirti il titolo del nuovo romanzo, perché tanto non lo cambierò: Follie di Brooklyn. È il tentativo di scrivere una sorta di storia comica, è un terreno che non ho mai battuto finora e mi ci sto divertendo molto; sono scettico su ogni parola che scrivo eppure in fondo mi sembra che stia venendo fuori qualcosa di interessante. O almeno lo spero.
jl: Non vedo l’ora di leggerlo.
pa: È che uno cerca di sorprendersi. Bisogna andare contro tutto quello che si è fatto prima. Bisogna bruciare e distruggere i propri libri precedenti; bisogna reinventarsi ogni volta. Quando si cade nella routine, secondo me, per un artista è la morte. Ci si deve sempre mettere in discussione e mai riposare sugli allori, mai pensare alle cose scritte in precedenza. Dire soltanto: quella è acqua passata, adesso ho a che fare con qualcos’altro. Mi pare evidente che il mondo è abbastanza grande e interessante da permetterti di usare un approccio diverso ogni volta che ti metti a scriverne.
jl: Comunque sia, la voce di uno scrittore è quella, non ci si può fare niente. E quindi i libri avranno sempre qualcosa che li unisce, nonostante uno tenti di ignorare le cose che ha scritto in passato.
pa: Esatto, perché tutti i tentativi di fuggire da te stesso sono inutili. Ti riscopri semplicemente tale e quale, con le ossessioni di sempre. Le ripetizioni maniacali di determinati modi di pensare. Però ci provi lo stesso. E secondo me c’è una certa dignità in questo tentativo.
jl: Mi viene da ridere, perché adesso che sto per cominciare finalmente un nuovo romanzo, l’unica cosa di cui sono sicuro sono le esclusioni, gli elementi che mi rifiuto di utilizzare di nuovo. Voglio evitare Brooklyn. Voglio evitare di parlare del rapporto fra genitori e figli. E ho notato che tutti i miei libri, per quanto fossero diversi tra loro, avevano dentro la posta in gioco della morte. Un personaggio capace di puntare la pistola contro un altro. E invece stavolta ho deciso di limitarmi alla posta in gioco emotiva.
pa: Be’, mi sembra una cosa buona. Quando uno si rende conto di quali sono stati i suoi limiti finora, diventa capace di superarli. Ogni artista ha i suoi limiti. Nessuno sa fare tutto. È impossibile. La cosa bella dell’arte è che circoscrive uno spazio, in senso fisico e mentale. Se uno cerca di mettere il mondo intero dentro ogni pagina, il risultato è il caos. L’arte consiste nell’eliminare tutto il resto per concentrarsi solo sulla cosa di cui si vuole parlare.
Le tecnologie
jl: Trovi difficile inserire nei tuoi romanzi certe tecnologie ormai profondamente radicate nella nostra quotidianità, come la posta elettronica e i cellulari? A me sembra che tutte le tecnologie inventate dopo una certa data – che per me potrebbe essere il 1978, o il 1984 – siano fuori posto nel mondo della letteratura.
pa: È una domanda molto interessante. Nel Libro delle illusioni, ambientato verso la fine degli anni Ottanta, compare un fax. C’è uno snodo importante della trama che ruota attorno a un fax. Quindi non sono contrario a parlare della tecnologia in sé e per sé. Nel libro che sto scrivendo ora si fa riferimento alla posta elettronica. E ai cellulari. Ma d’altra parte sono uno dei pochi rimasti a non avere un computer. Non scrivo su un elaboratore di testi, non ho un indirizzo email e non sono neanche particolarmente tentato di farmelo. Sono molto soddisfatto della mia penna e della mia vecchia macchina da scrivere portatile, ma di fatto non sono contrario a parlare di nulla nei libri. Penso che lo splendore del romanzo stia proprio nel permetterti di essere aperto a tutto, a qualunque cosa esista o sia esistita al mondo. Io non ho preconcetti. Non dico: «Questo non si può fare perché…».
jl: Non parlavo di un boicottaggio ideologico, ovviamente, ma più di una tendenza a evitare di inserire certi elementi. Io mando email in continuazione. Ma se le inserisco in un racconto o in un romanzo, mi sembra che la pagina perda istantaneamente la sua credibilità. Mi sembra che risulti meno reale.
pa: Ma questo conduce a una questione più ampia e più interessante che ho discusso con diversa gente nel corso degli anni. Sai, ci sono gli entusiasti della tecnologia che dicono sempre – saranno ormai centocinquant’anni che lo fanno – che questo o quel ritrovato cambierà il modo di pensare e di vivere della gente. Che rivoluzionerà le nostre vite. Non solo a livello materiale, ma anche nell’interiorità. Io non condivido affatto questa visione del mondo, per il semplice fatto che abbiamo un corpo. Ci ammaliamo. Moriamo. Amiamo. Proviamo dolore, cordoglio, rabbia. Sono costanti della vita umana, dall’antica Roma all’America contemporanea. Non credo proprio che la gente sia cambiata per via del telegrafo, della radio, del cellulare, dell’aeroplano o, adesso, della tecnologia informatica. Sette o otto anni fa sono stato invitato in Israele dalla Jerusalem Foundation e ho soggiornato in un centro per artisti chiamato Mishchanot. Un posto stupendo. Avevo cinquant’anni e non ero mai stato in Israele: pur essendo ebreo avevo sempre opposto resistenza all’idea. Stavo aspettando il momento giusto, e quando mi è arrivata la lettera di Teddy Kollek in cui diceva che volevano invitarmi per tre o quattro settimane a soggiornare in quel posto per scrivere, o fare quello che preferivo, mi è sembrato che fosse l’occasione più adatta. Sono venute con me anche Siri e Sophie [la figlia di Auster, N.d.T.]. A un certo punto abbiamo fatto un giro per tutto il paese. Abbiamo visitato la cittadina di Qumran, dove sono stati ritrovati i Rotoli del Mar Morto. C’è un museo straordinario, che conserva i rotoli e altri manufatti venuti alla luce nella caverna e nelle immediate vicinanze. Questi reperti sono veramente affascinanti, perché ci sono piatti che sembrano identici a quelli che potremmo comprare oggi in un negozio, con le stesse fantasie, la stessa forma, o cesti che qualunque italiano o francese di oggi potrebbe usare per fare la spesa al mercato. Ho avuto un’improvvisa rivelazione sulla straordinaria uniformità della vita nel corso delle varie epoche. Ecco perché oggi possiamo leggere Omero, Sofocle e Shakespeare e sentire che ci parlano di noi.
jl: Quando avevo poco più di vent’anni vivevo nei dintorni di San Francisco, era la fine degli anni ottanta. Sono stato testimone in prima persona dello straordinario boom dell’ideologia del computer, la nascita della rivista Wired e tutto il contesto di quel fenomeno. C’era un’incredibile esaltazione all’idea che con l’arrivo della realtà virtuale la vita umana non sarebbe più stata la stessa. Ma se uno legge Diga Vertov, il grande teorico russo del cinema, cento anni prima lui faceva le stesse affermazioni a proposito della settima arte. E una decina d’anni prima, l’avvento della radio era stato circondato dallo stesso tipo di retorica.
pa: All’epoca doveva sembrare una vera rivoluzione. Tutto il mondo, persone lontanissime fra loro, improvvisamente entravano in contatto. Questo non vuol dire che nella tecnologia non siano insiti dei pericoli. Sappiamo fin troppo bene che gli adolescenti di oggi passano le loro giornate davanti allo schermo dei computer, ottundendosi i sensi invece di gustarsi pienamente la vita. Ma secondo me, quando cresceranno e il confronto con il mondo reale sarà inevitabile, finiranno per diventare persone come noi.
jl: Il paradosso più sfizioso è che però grandissima parte del mondo telematico prende forma scritta. Quella che doveva essere una cultura post letteraria o prettamente visiva ormai è ossessionata dagli scambi epistolari. Dalle lettere. O dai diari.
pa: Esatto. Il che ci riporta alla questione della letteratura. Di generazione in generazione, da innumerevoli parti si è sentita prevedere la morte del romanzo. Eppure credo che le storie scritte continueranno a sopravvivere, perché rispondono a un’esigenza umana fondamentale. Forse saranno i film a scomparire prima dei romanzi, perché il romanzo è uno dei pochissimi luoghi al mondo in cui due estranei possono incontrarsi su un un piano di assoluta intimità. Il lettore e lo scrittore creano il libro insieme. Come lettore, uno entra nella coscienza di un’altra persona, e nel farlo secondo me scopre aspetti della propria umanità che lo fanno sentire più vivo.
pa: Mi piace il fatto che enfatizzi l’aspetto privato e personale di questa esperienza. Per quanto successo possa avere un romanzo, l’atto fisico della lettura fa sì che non possa mai diventare un’esperienza collettiva. Leggere è qualcosa di intimo. Quasi masturbatorio.
pa: Sì, il lettore di un romanzo è un singolo individuo. Questo, per me, è il vero nocciolo di tutta la questione. Una persona sola. Ogni volta, una persona sola.
L’ekphrasis
jl: Mi affascina molto anche l’idea che il romanzo sia in grado di descrivere diffusamente altre forme d’arte. Mi sembra uno dei suoi punti di forza più specifici: può contenere una canzone, una poesia o un film….
pa: O un dipinto.
jl: O un dipinto. Ha un’ampiezza di portata che altre forme d’arte non possiedono, perché un romanzo non può essere riassunto in nessun’altra forma.
pa: Credo che la parola esatta sia ekphrasis, un termine tecnico della retorica che indica la descrizione di opere d’arte immaginarie. A me sembra molto interessante che una delle cose su cui i romanzi non si sono mai concentrati molto, nel corso dei secoli, sia proprio il fatto che la gente legge i libri. Io racconto i libri e l’esperienza di leggerli in quanto parte della realtà del mondo. E lo stesso vale per i film. Perché non descrivere i film? Dopo aver pubblicato Il libro delle illusioni, ne ho mandato una copia al mio amico Hal Hartley, il regista. E lui mi ha detto: «Sai che forse i film raccontati per iscritto sono anche meglio dei film veri? Riesci a visualizzarli benissimo, e al tempo stesso ogni scena è esattamente come la vuoi tu».
jl: Noi scrittori siamo come registi di un film perfetto. Possiamo scegliere gli attori ideali per ogni ruolo. Possiamo allestire il set come ci pare, fino all’ultimo dettaglio.
pa: E poi, con un libro, si può leggere lo stesso capoverso quattro volte. Mentre si è a pagina 300, si può tornare a pagina 21. Col cinema è impossibile. Il film va avanti per la sua strada. Spesso è difficile tenere il passo, specie guardando un film che ci piace molto. I bei film richiedono diverse visioni per poterli ammirare fino in fondo. Uno degli errori che ho fatto in Lulu on the Bridge è che ho scritto la sceneggiatura in maniera troppo simile a come si scrive un romanzo. Probabilmente il film va visto parecchie volte prima di poterlo capire veramente. C’è un momento, verso l’inizio, in cui Harvey Keitel cammina per la strada e sul muro si vede una piccola scritta che dice Beware of God, «Attenti a Dio». L’avevo vista su una maglietta e mi era piaciuta molto. È la versione dislessica di Beware of Dog, «Attenti al cane». Molto più avanti, nel corso del film, ho deciso di inserire un cane che abbaiava in lontananza. Quel cane, per me, era una divinità. Ed è in quel momento che il personaggio di Harvey scopre il morto nel vicolo. Nessuno, nessuno sarebbe in grado di capire qual era il mio intento, in quel caso.
jl: Mentre un lettore, incontrando una frase su un cane che abbaia, dovrebbe fermarsi a chiedersi come mai è stata fatta quella scelta in quel momento. In un romanzo tutto risponde a una scelta ben precisa dell’autore, mentre parte di ciò che viene catturato sulla pellicola è casuale, dipende da aspetti imprevedibili della fotografia e della registrazione del sonoro.
pa: Esatto.
jl: Nel frattempo non posso fare a meno di notare che, mentre descrivevi la scena, qui a Brooklyn c’era proprio un cane che abbaiava in lontananza.
pa: Infatti.
jl: Allora, qual è il tuo esempio preferito di ekphrasis, di opera d’arte descritta in un’altra opera d’arte?
pa: In Guerra e pace c’è un momento bellissimo in cui Nataša viene portata all’opera e Tolstoj decostruisce tutta la sua esperienza. Invece che descriverla dal punto di vista emotivo o artistico, la affronta dal punto di vista più grezzo, più fisico. Del tipo: «Poi una donna grassa salì sul palco e cominciò a gesticolare, poi in sottofondo suonò un gong e lampeggiò un fulmine, e poi un uomo magrissimo cantò un’aria che nessuno capì». Quella è probabilmente la più divertente descrizione di un’opera d’arte che abbia mai letto. Ma forse la migliore, la più bella, dovendone scegliere una così su due piedi…
jl: Be’, sarebbe quello l’ideale. pa: Mi dispiace un po’ parlare di qualcosa che mi è così vicino, ma penso che sia nell’ultimo romanzo di Siri, Quello che ho amato. Le opere d’arte del pittore sono di una profondità sublime, e fanno parte integrante del romanzo. Sono descritte in un modo meraviglioso. Credo di non aver mai letto un romanzo in cui l’arte avesse un ruolo così fondamentale nella storia.
jl: Mi ricordo la descrizione di un dipinto in cui compare la figura dell’artista, appena appena, al bordo della tela.
pa: Una piccola ombra.
jl: Esatto.
pa: Nel corso degli anni mi ha sempre interessato moltissimo anche la componente di artificialità dei libri. Cioè, chi vogliamo prendere in giro, in fondo? Lo sappiamo tutti che quando apriamo un romanzo o una raccolta di racconti stiamo leggendo una cosa immaginaria, e mi ha sempre affascinato sfruttare questo elemento, utilizzarlo, renderlo parte del libro stesso. Non in maniera arida, accademica, da metafiction, ma semplicemente come parte organica del testo scritto. Quando ero piccolo, ogni volta che cominciavo un libro scritto in terza persona mi chiedevo: «Chi è che parla? Di chi è la voce che ascolto? Chi è che mi racconta questa storia?». Sulla copertina vedo scritto un nome, dice Ernest Hemingway o Tolstoj, ma è davvero Tolstoj o Hemingway quello che parla? Mi sono sempre piaciuti moltissimo i libri in cui veniva fornito un qualche tipo di pretesto per l’esistenza del libro stesso. Per esempio La lettera scarlatta, in cui Hawthorne scopre il manoscritto nella dogana e lo riproduce nelle pagine successive. È tutto un trucco. Arte che parla di arte che parla di arte. Eppure mi affascina moltissimo. Credo che sia per questo che gran parte dei miei libri sono scritti in prima persona, anziché in terza.
jl: Quando hai cominciato sapevi già che sarebbe stato così? Anche io gravito verso la prima persona, ma da ragazzo, da lettore, trovavo che la terza fosse la più pura. In un certo senso, mi sembrava la forma più alta di letteratura.
pa: Forse sì, ma a me piace quella bassa. Mi interessa molto tutto ciò che è basso, terra terra, quasi indistinguibile dalla vita reale.
jl: A che punto del progetto decidi con certezza quale delle due persone usare?
pa: Direi che ogni volta l’ho sempre saputo fin dall’inizio. L’unica occasione in cui mi sono trovato un po’ perplesso è stato nello scrivere un libro di non fiction, L’invenzione della solitudine. La prima parte è scritta in prima persona, e avevo cominciato così anche la seconda. Ma in quelle pagine c’era qualcosa che mi stonava. Non capivo come mai ero così insoddisfatto. Scrivevo, scrivevo, scrivevo, ma a un certo punto mi sono dovuto fermare. Ho messo da parte tutto quanto, ci ho riflettuto per diverse settimane e ho capito che il problema era la prima persona. Dovevo passare alla terza. Perché nella prima parte scrivevo di qualcun altro, di mio padre. E ne parlavo dal mio punto di vista. Ma nella seconda parte parlavo soprattutto di me stesso. E usando la prima persona, non riuscivo più a vedermi. Passando alla terza, sono riuscito a prendere le distanze, e questo mi ha permesso di vedermi con chiarezza, il che a sua volta mi ha permesso di scrivere il libro. È stato un processo molto strano.
jl: Hai usato la parola distanza. E a me sembra che uno degli aspetti della tua opera – onnipresente, ma molto elusivo, e difficile da spiegare a parole – sia una certa riservatezza.
pa: Ti sembrerà sorprendente, ma io invece tendo a considerarmi uno scrittore molto emotivo. Nasce tutto dai miei sentimenti più profondi, dai sogni, dall’inconscio. Eppure quello che mi sforzo sempre di ottenere nella mia prosa è la chiarezza. In modo tale che, idealmente, la scrittura diventi così trasparente da far dimenticare al lettore che la comunicazione avviene attraverso il linguaggio. Voglio che si ritrovi semplicemente immerso in quella voce, immerso nella storia, immerso in quello che succede. Quindi sì, c’è un certo grado di… non la chiamerei riservatezza, ma precisione, magari. Non lo so. Allo stesso tempo, cerco di indagare le questioni emotive più profonde che conosco, l’amore e la morte. La sofferenza umana. La gioia delle persone. Tutte le cose importanti che rendono la vita degna di essere vissuta.
jl: Sì, non intendevo affatto dire che trovo i tuoi libri privi di passione. Secondo me La notte dell’oracolo è un romanzo commovente, straziante. Non sono sorpreso da quello che dici. Anzi, penso che hai ragione, l’aspetto che sto cercando di evidenziare nasce dalla precisione della tua prosa, dal suo rigore. L’effetto è quello di un testo che sta fuori dal tempo.
pa: Io voglio scrivere libri che si possano leggere anche fra cent’anni, senza che il lettore si impantani in dettagli inutili. Insomma, non sono un sociologo, anche se spesso il romanzo si è interessato di sociologia. È una delle sue forze generatrici, e ha fatto sì che la gente si avvicinasse alla letteratura. Ma a me non interessa. Quello che mi sta a cuore è la psicologia. E anche certi interrogativi filosofici sul mondo. Estraniando le mie storie dal groviglio di cose che ci circondano, spero di ottenere una sorta di approccio più puro alla vita emotiva.
jl: E il bello è che assegni questo stesso imperativo anche ai tuoi personaggi, che spesso cercano di purificare il rapporto che hanno con la propria vita.
pa: Direi che in un certo senso quasi tutti i miei personaggi sono non consumatori, poco attratti dalle manie e dai prodotti della vita contemporanea. Questo non significa che nei miei libri non compaia una serie di oggetti molto precisi, solo che non mi ci soffermo troppo.
jl: È vero, nei tuoi libri anche i riferimenti più diretti alla contemporaneità sembrano sempre sfumare in un’atmosfera senza tempo.
pa: Ci tengo molto a far sì che ogni parola e ogni frase che scrivo sia incisiva e pertinente. Non voglio concedermi il lusso di scrivere frasi bellissime fini a se stesse. Quello non mi interessa. Desidero invece che tutto sia essenziale. Il centro è dappertutto, per così dire. Ogni frase è il centro del libro. Tutti i diritti appartengono alla casa editrice ISBN che ci ha gentilmente concesso la riproduzione di questa conversazione.