«La mia unica passione è l’indifferenza. Il mio proposito è scrivere dal punto di vista di un morto. In almeno un’occasione lo sono stato: morto.»
Nel suo libro autobiografico, I rifugi della memoria, José Luis Cancho impartisce una lezione notevole per chi sentisse il bisogno di mettere nero su bianco episodi della propria esistenza: è possibile, anzi è necessario, creare un cortocircuito tra la fedele replica della realtà e la sua rappresentazione letteraria.
Cancho ci riesce con franchezza, rimanendo da un lato ancorato a un livello cronachistico di testimonianza, come è giusto che sia, dall’altro ritemprando le ambientazioni attraverso una evocazione meticolosa delle atmosfere che gli hanno dato alloggio, rapportandole con la sua indole, influenzando la sua individualità. In questo modo la storia, l’ambiente e i personaggi si fondono in un tutt’uno familiare-letterario, lasciando all’esposizione dei dettagli il compito di rendere gli ambienti protagonisti imprescindibili, tanto quanto l’io narrante.
È così che, per esempio, le condizioni igieniche del carcere divengono personificazione dello stato di passività che lo attanaglia nel vincolo della detenzione. Un confine contemplativo, dove la mancanza di empatia per il dolore altrui non è altro che intima sopravvivenza, isolamento nell’isolamento: il rifugio nei propri pensieri per cercare di sfuggire, intellettualmente nonché psichicamente, all’ambito che lo condiziona, l’unica evasione concepibile dall’irrealizzabilità di impugnare le redini della propria vita.
«Ricordo che per combattere l’infezione ogni giorno doveva spalmare una crema sulla zona infetta. Ma soprattutto ricordo che, oltre a pulire più volte la tazza con la liscivia, tutti e due prendemmo l’abitudine di rivestire i bordi con la carta igienica prima di sederci.»
La mattina del 18 gennaio 1974, quattro poliziotti della Brigata Politica-Sociale, dopo un lungo pestaggio, scaraventarono un ventiduenne J.L. Cancho da una finestra del commissariato di Valladolid. «Mi hanno buttato giù perché credevano di avermi ammazzato, ma non mi hanno ammazzato nemmeno buttandomi giù», racconterà in seguito durante un’intervista.
Senza il filtro della rielaborazione, partorita dopo sofferte riflessioni, la vicenda personale di Cancho – di per sé già forte sul piano di pertinenza al contesto storico, inteso come relazione di fatti che si sviluppano su tracciati documentati del tempo – correva il rischio di rimanere una vicenda personale o solo uno sfogo, seppur valevole d’attenzione per gli aspetti impliciti di testimonianza del “realmente accaduto”, ma pur sempre una goccia in un oceano di ingiustizie che bagna il mondo ogni giorno.
La maestria dell’autore è da ricercarsi nel processo mai scontato di approdo all’universalità, nel saper coinvolgere chi legge a livello viscerale anziché tergiversare sullo strato esplicativo. Come afferma Andrés Barba nella sua ottima prefazione al testo «In tempi di autofiction, la civetteria ha adottato forme nuove e impreviste, spesso equivoche. Una di queste, non meno comune, consiste nel bistrattarsi con una sciatteria un po’ spavalda, costruendo un racconto dimesso nelle circostanze ma eroico nella sua essenza, in cui il protagonista non si prende mai la responsabilità diretta dell’infelicità in cui versa…». Lo scrittore spagnolo mette in discussione la rappresentazione popolare dell’eroe, colui che sacrifica se stesso in nome di un bene comune. Nel contempo smantella i precetti dell’anti-eroe, che deve apparire inferiore in termini di motivazioni sociali o di intelligenza, difendendo la salvaguardia della molteplicità del reale, tramite una elaborazione di trasferimento dei due concetti contrapposti in una sorta di co-iponimia del modello narrativo.
Le distanze concettuali si annullano tramite una autoanalisi dell’autore-protagonista che non fa sconti a nessuno, facendo affiorare, senza preoccuparsi di infierire contro se stesso, il marciume dal sottosuolo (per dirla alla Dostoevskij). Operazione che si insinua nella sensibilità del lettore come l’effetto di una meditazione profonda quanto imparziale, pertanto convincente.
«Sono attratto dalle periferie delle città e dalle letterature marginali. Lo straniamento è per me una costante. Mi attira l’essere invisibile, anonimo. Il settarismo mi causa sentimenti contrastanti, mi attira e mi respinge al tempo stesso. Non c’è un confine netto fra la mia vita reale e quella fittizia.»
Tutti questi elementi, associati a intuizioni a volte liriche, fanno de I rifugi della memoria una rappresentazione letteraria di Cancho davvero riuscita, ma anche una contestazione testuale da non confondere con la comunicazione politica e di affari pubblici tout court. Piuttosto si potrebbe considerare come l’anticamera di un processo di ammissione interiore, accettazione di ciò che si è, limiti e pregi a braccetto.
L’autore interpreta retrospettivamente l’analisi degli avvenimenti da un punto di vista posticipato, nell’attesa che i suoi vagabondaggi, i tanti modi di interessarsi a ciò che lo circondava, ma che spesso ometteva, “di guardare senza guardare”, il senso di sospensione ma anche dissolvimento che i viaggi gli hanno destinato, rifluiscano dalla memoria per prendere sede in un presente privo di limiti temporali, punto focale nella terapia dello scrivere.
«Quanto meno sono attaccato a questa vita, tanto più mi piace.»
Roberto Addeo
Recensione al libro I rifugi della memoria, di José Luis Gancho, Arkadia Editore 2020, pagg. 80, € 13.