Insurrezione è il nuovo romanzo dello spagnolo José Ovejero, che Voland si accinge a mandare in libreria con la traduzione di Bruno Arpaia. È un romanzo-inno alla precarietà e alla fragilità della società (e della realtà), che sfrondato di qualsiasi visione ideologica ne mette in evidenza ogni nodo e conflitto con implacabile precisione. Ovejero, infatti, non siede dalla parte di una letteratura consolatoria né tanto meno rassicurante. Così la protagonista Ana è figlia di genitori divorziati e vive in una casa occupata – in una porzione di città, il quartiere di Lavapiés, a Madrid, sempre più gentrificato e invaso dai turisti – luogo che diventa per lei una sorta di roccaforte in grado di difenderla dalla vita precaria in cui vive, anche a patto di intrapendere azioni che comportano l’uso della violenza. Insurrezione è una straordinaria occasione di leggere l’umanità di cui facciamo parte, di vedere ciò che, ogni giorno, disimpariamo a guardare per abitudine, per convenienza, per autodifesa.
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C’è una soddisfazione che Ana non aveva conosciuto fino a questo momento. La vita semplice. Ma non in campagna coltivando ortaggi, svegliandosi al canto di un gallo, ascoltando in lontananza i campanacci delle vacche e i belati delle pecore, non cuocendo marmellate e sfregandosi le mani sul grembiule dopo averle lavate con un secchio d’acqua preso dal pozzo. Ad Ana le immagini bucoliche da romanzo rurale fanno venire sonno e svogliatezza, producono la sensazione che quelle cose siano già passate e potrebbero essere accettate soltanto come rifugio dopo una catastrofe nucleare o una crisi globale che trascinasse nella miseria decine di milioni di persone. Come vivere nelle grotte o nuotare fino a un’isola dopo un naufragio.
Per lei la vita semplice è un’altra cosa. Basta non pensare a un altro futuro che non sia quello immediato, perché non si può vivere preparandosi a ciò che potrebbe succedere, a che scopo?, poi la vita fa torsioni, schivate, devia come un rigagnolo che s’imbatte in un ostacolo e cerca un’altra strada, ristagna o, al contrario, fluisce più veloce giù per il pendio. Essere acqua, essere rigagnolo, sapere che darsi delle mete è inutile, perché dopo pioverà o arriverà la siccità, perché devi tenere in conto gli altri che scavano fossati o innalzano muri. Stare. Essere. Respirare. Apprezzare la compagnia di quelli con cui ti trovi anche se solo per un momento e che condividono per un po’ la tua vita e costruiscono con te, ognuno con le sue capacità e le sue possibilità, senza altro obbligo che mantenere vivo il desiderio. Ma abbiamo a poco a poco perduto sia le capacità sia il desiderio, la maggior parte di noi sarebbe incapace di fare il pane o di tingere un pezzo di stoffa, sebbene siano cose che si imparano facilmente: basta aiutarsi l’un l’altro, come fanno a El Agujero o al Centro sociale. Viviamo manipolando oggetti che non sapremmo riprodurre né riparare: un computer, un cellulare, la macchinetta dei biglietti della metro. La tecnologia ci trasforma in inetti circondati da scatole nere. Come desiderare se non possiamo fare? Il desiderio è stato sostituito dal capriccio.
Si siede, appoggiata a una parete della panetteria, all’incrocio fra due strade, mentre Yannick fa giochi di destrezza con il diabolo e dice a ogni persona che passa, una monetina, quello che puoi, e se non puoi mi basta un sorriso, sì, grazie mille, buona giornata… con quell’ottimismo che lei fa fatica ad accettare come reale, però è lì, ogni mattina, non è il sorriso del venditore di automobili a cui nessuno crede, una parte fra tante del travestimento, come il completo blu, la cravatta, la stilografica di metallo, l’orologio da signore, l’energia che anche loro indossano ogni mattina come il soldato che si mette l’uniforme per andare a fare una guerra che non si sa ancora che è persa; no, Yannick sorride perché sente quel sorriso, perché è un ragazzo privo di rancore, e perciò è così difficile convincerlo a partecipare a molte azioni che esigono, se non rancore, almeno rabbia, un desiderio di distruzione.