Gratitude è un libro sincero dove Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti, racconta i suoi primi venticinque anni di carriera o per meglio dire, alcuni dei principali episodi di vita e musica che hanno caratterizzato la sua storia d’artista, iniziata col fare i dischi “che era ancora tutto analogico” come ricorda lo stesso Lorenzo nel libro, scritto quasi come fosse uno spettacolo: “non vado a riascoltare i pezzi del repertorio, quindi questo sarà un racconto incompleto e un po’ disordinato. Siete avvisati.” Così sottolinea nelle prime pagine per poi affidarsi alla memoria personale che in ordine forse solo apparentemente casuale riaffiora e fa sì che i ricordi si lascino scrivere sulla traccia di un ritmo incalzante che domina su tutta la narrazione. Ed è la musica la vera protagonista di Gratitude. Ad essa si mescolano i viaggi, le idee e l’ispirazione soprattutto, che nasce dall’incontro con gli altri e con l’amore. Si susseguono uno dopo l’altro i racconti, da quelli sulla passione per il rap, a quello riguardante il primo grande successo intitolato È qui la festa? passando per le notti in consolle a fare il dj fino ad arrivare ai brani impegnati come Il mio nome è mai più. Quello che rimane dalla lettura di questo viaggio attraverso la musica e la vita di Jovanotti è senza dubbio la voglia continua di questo artista di mettersi in discussione sempre, guardando al futuro, perché “il mondo comincia ogni giorno”. Scrive ancora Jovanotti: “Non ho mai voluto farmi uno studio con i contro fiocchi, che mi togliesse dalla necessità di dover andare altrove a lavorare proprio perché mi piace avere bisogno di andare altrove, e ovunque sia questo altrove è un posto magico dove entrando sento tutti i sensi che si allineano, come se si disponessero all’agguato. Ho uno studio in casa ma è più che altro una cantina attrezzata, un luogo di partenza, anche se lì dentro sono nati gli embrioni di parecchie cose e ogni tanto mi ci siedo da solo, a luci spente, e sono pervaso da un senso di cosmico benessere. Gratitude.”
La fotografia scelta è quella di un cielo in viaggio con prevalenza di colori che richiamano il vecchio stile, a simboleggiare da un lato il ricordo, dall’altro la corsa come proiezione verso il futuro, altrove magico da raggiungere. L’immagine vuole in particolare simboleggiare la musica che (s)corre in tutti noi attraverso questo grande viaggio chiamato vita.
Silvia Castellani
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A La Habana ho trovato la Roma dei primi anni ’70 dove sono stato bambino, quei pomeriggi troppo azzurri e lunghi, le poche macchine, la gente che ripara le cose prima di comprarne di nuove. Mi è sembrato di inciampare di colpo in sporgenze del terreno e di accorgermi che si trattava delle mie radici, che si erano trapiantate. In altri viaggi ho vissuto la storia contraria, nei paesi che stanno correndo a rotta di collo verso lo sviluppo, ho scavato per terra e non c’era nulla di fertile, solo cemento. Tutt’e due le volte ho provato una certa incontenibile eccitazione, fino a convincermi che quei due mondi, e io uno che sta sulla porta, in contatto costante con le due realtà. Me ne sono fatto una ragione.
da Gratitude (Einaudi), p. 77.
Torniamo sempre lì, al concetto di energia. È come se io cercassi luoghi dove l’energia scaturisce, è come se piantassi pali della luce in giro per poi stendere dei cavi. Una canzone è un centro di gravità, un sole nuovo nello spazio cosmico.
Poi qualche mese dopo (essere stato a La Habana dove, avendo avuto modo di ascoltare nuovi suoni, prese forma l’idea iniziale per L’ombelico del mondo, ndr) mi trovavo a Londra, non mi ricordo bene perché, ma mi ricordo dove, in un locale dalle parti di Portobello dove si faceva musica dal vivo, era il periodo dell’acid jazz e c’erano in giro band che spingevano forte. Partì un assolo strepitoso tra un percussionista e un pianista elettrico, una cosa infinita che sarà durata dai trenta secondi alle cinque ore, non so dirlo bene, e io mi ci persi dentro insieme a tutti quelli che erano pressati in quella stanza, gente di ogni colore come solo a Londra può capitare di trovare. Alla fine di quell’assolo uscii dal locale ed entrai in un fish and chips aperto tutta la notte e sulla carta marrone delle patate fritte mi appuntai le prime due strofe di L’ombelico del mondo che fotografavano l’esperienza che avevo appena vissuto.
Con i testi bisogna fare così, non lasciarseli sfuggire, ovunque ci si trovi se arriva un’idea bisogna appuntarsela subito, lasciare tutto quello che si sta facendo e darle la precedenza assoluta.
Quella canzone restò sospesa in una forma intermedia per tre anni. Provai a registrarla per Lorenzo 1994 ma il risultato non mi convinceva, non aveva abbastanza personalità, volava basso. Ci vollero dei viaggi in più.
Viaggiare è una maniera di comporre e scrivere canzoni attraverso i piedi, è una forma di scrittura attraverso il movimento.
da Gratitude (Einaudi), p. 79.