Ci sono scarafaggi che infestano l’edificio e scarafaggi che si annidano tra i paragrafi del romanzo. Sono animali minuscoli e un po ‘ molesti, per nulla cattivi e neppure pericolosi, soltanto molto, molto irrequieti. Li si avverte durante la lettura mentre si muovono negli interstizi, quando corrono lungo gli scalini del condominio, tra i pensieri del protagonista, nelle intercapedini di un palazzo che sta in piedi con lo sputo, scarafaggi, ovunque, una roba da far impallidire Kafka stesso. Brulicano di quella stessa inquietudine nervosa che sembra attraversare tutto il testo, mai sazi e mai quieti, come i pensieri di Teo, venditore di tacos in pensione, pittore mancato, con un morboso attaccamento per la Teoria Estetica di Adorno e una brama artistica ormai sepolta sotto quintali di ciarpame. Arte ed estetica che in questa storia stramba e un po’ psicotica ritornano, a spizzichi e bocconi, tra un susseguirsi di cani adottati e battezzati da una madre che non è più presente di corpo ma il cui spirito incombe nei capitoli, figura formativa e fondante di pensieri e paranoie che sulle spalle del povero protagonista si ammassano e gravano, come una cappa ectoplasmatica, da scacciare a colpi di cicchetti.
Eccoci quindi improvvisati ascoltatori ad accompagnare per mano il buon Teo, di rado sobrio eppur sempre lucido, viandante tra i pianerottoli di un condominio fatiscente popolato di persone bizzarre, dove basta uno starnuto di troppo o un occhio sulle curve malandrine per mandare tutto in vacca, tra liti condominiali e tertulie in cui trovarsi d’accordo sulla prossima lettura appare cosa assai più miracolosa dell’aver sognato l’ennesima rivoluzione.
A Città del Messico fa sempre caldo e anche queste pagine sembrano sudare non solo di temperature bastarde, semmai di un fermento annidato in ognuna delle bizzarre comparse che si avvicendano lungo i capitoli, dalla presidentessa condominiale Francesca, che cazzia e punzecchia senza farsi scrupoli, alla ribelle Juliette, pronta a togliersi guanti e grembiule al primo colpo di stato che non sia solo un colpo sul bancone a reclamar verdure. E poi c’è Willem, giovinetto efebico dalla sessualità incerta, che si porta appresso un credo a cui forse si aggrappa pure troppo, e Mao e Dorotea che solo dai nomi nascondono mondi capaci di strappare un sorriso e una riflessione nello spazio di uno stesso paragrafo: cosa rara e preziosa, nei libri d’oggi.
Di passato e attualità profumano le pagine instabili di questo testo d’avanguardia che parla del suo paese, al suo paese, a tutti i paesi. Un libro manifesto e megafono di una mente folle, parecchio illuminata, capace di far girare questo carosello schizoide a una velocità che spiazza e disorienta, appena si abbandona la pagina. Colpa di quella voce, ilare e travagliata, il grido di un artista che si cruccia giorno e notte perché incapace di portare a compimento il suo romanzo meta-narrativo, opera omnia di un’esistenza in cui la vita stessa gioca a scambiarsi di posto con la letteratura. Si sorride parecchio una volta messo piede nel vano scala di questa comunidad che non è una pellicola di Álex de la Iglesia ma in più frangenti, a parer mio, ci si avvicina.
Ben venga quindi la commedia quando è in grado di squarciare la realtà, ben venga l’arte e l’estro di Adorno con i suoi aforismi le sue teorie perché se è vero che la lingua proletaria è dettata dalla fame e il povero deve biascicar parole per saziarsi, allora qui è il caso di correre tutti a riempirsi bocca e stomaco.
È giunto il tempo di rendere tributo, testa china e mano sul cuore, rivendicare i dimenticati, i reietti, gli “spasulati” (Gala ha fatto scuola) che mai come in questi anni, finalmente, stanno ritrovando la loro voce. Che questo ululato randagio possa essere un invito alla scoperta, non di un cane ma dell’intero catalogo di un editore che, fino a oggi, non ha sbagliato un colpo.
Stefano Bonazzi
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Ti vendo un cane
Juan Pablo Villalobos
Cento Autori
16,00 euro — 284 pagine