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Jude Ellison Sady Doyle. Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano

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Tlon edizioni porta in libreria, con la traduzione di Laura Fantoni e Andrea Salomone, Spezzate. Perché ci piace quando le donne sbagliano l’esordio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in origine nel 2016 con il titolo Trainwreck: The Women We Love to Hate, Mock, and Fear… and Why per Melville House. Jude Ellison Sady Doyle ha un repertorio considerevole di ricerca e conoscenza del femminismo: sua l’opera narrativa, edito sempre da Tlon, Il mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne (2021), sua la firma apparsa su «The Guardian», «Elle», «The Atlantic» e sul magazine «GEN» di Medium, che ne ospita una rubrica settimanale. Da “idolo a disastro”, attraversando il trainwreck, ossia il deragliamento dai binari del proprio ruolo che porta a perdere tutto ciò che si era ottenuto. Cosa può accadere a delle donne influenti che duellano con le norme, e cosa le loro storie posso comunicarci e insegnarci? La lettura di questo brillante libro regala un’indagine di ciò che rende un disastro tale o presunto, sino a ciò che si può fare per correggerne il tiro, coraggiosamente mettendo nero su bianco che “Mentre i naufragi continuano a spuntare nelle nostre timeline dei social media e nei feed dei blog di gossip, mentre i social media si accalcano e le letture di odio continuano ad arrivare, mentre questa ragazza sorge continuamente, si scandalizza, si spegne e viene sostituita, è difficile evitare la conclusione che abbiamo un vasto e insaziabile appetito per la rovina e la sofferenza specificamente femminile”. Smantellando le narrazioni sessiste che affliggono i media ed esaminando il femminismo tramite variegate lenti sociologiche l’autrice attacca audacemente il quadro ciclico che la nostra società ha “immortalato” per molto tempo, troppo. Uno sguardo nuovo verso quei personaggi bollati come “rovine di treni” nel tentativo per la figura della trainwreck e “il fascino che esercita su di noi, di prendere tutto il potere di cui è capace, quello che scuote la terra e fa infuriare la civiltà, e usarlo per rendere il mondo un luogo più giusto per le donne che lo abitano”.

Claudia Caramaschi

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Pazzia

Quando avevo dodici anni, escogitai un piano per conquistare i bambini più fichi della scuola. Alla festa di Halloween avrei indossato il costume più originale e divertente. Le altre ragazze sarebbero andate vestite da streghe o gattine, mentre i maschi da zombie: un po’ di sangue finto e via. Io no, volevo stupire tutti con il mio mostro.

Volevo essere Courtney Love.

Per noi, ragazzini di una scuola media di un quartiere residenziale, Courtney Love era la bestia nera. Tutti amavamo suo marito Kurt, il povero Kurt, Kurt che ha sofferto tanto, ed eravamo consapevoli che i Nirvana erano la più grande band che fosse mai esistita. In mente ho questo chiaro ricordo di me seduta nella stanza di un ragazzo, mentre fisso la testa alta quasi un metro di Kurt su un poster (quello di Mtv Unpuggled, dove appare piuttosto agitato), e lo sento mormorare: «Non è bizzarro che lui sia la nostra ragione di vita?». Kurt era il nostro Messia: avevamo calpestato questa terra insieme, toccato con mano le sue ferite e avremmo per sempre mantenuto vivo il suo vangelo, preservandolo dalle blasfemie dei poser.

Ma prima di poterlo accogliere davvero nel tuo cuore, dovevi riconoscere che Courtney Love era Satana. Lo aveva sposato solo per diventare famosa, gli aveva rubato le canzoni e faceva battute sulla sua lettera d’addio. Alcuni pensavano che a ucciderlo fosse stata lei. Era maleducata, cattiva, volgare; lei diceva di essere “femminista”. Picchiava le persone e ai concerti le si vedevano sempre le mutande, a volte (bisbigliavamo, cupi e timorosi) anche le tette.

Presi quindi un vestito rosa e lo sforbiciai fino a farlo diventare una minigonna. Indossai un paio di stivali non avevo le Dr. Martens, ma dei vecchi scarponi invernali consunti andarono bene e una parrucca bionda scompigliata. Mi misi il trucco, troppo, e me lo spalmai sul viso. Mia madre giudicò che l’aspetto generale non fosse eccessivamente provocante («Non vuoi essere davvero come questa donna, vero?» «Nessuno lo vuole, mamma, è questo il punto!») e uscii di casa.

Quando, poi, fui finalmente lontano dallo sguardo di mia madre, tirai fuori il pezzo forte. Presi una spilla da balia e mi graffiai le braccia, per avere anche io i segni delle iniezioni. Non avevo idea di cosa fossero veramente, di come venissero, di cosa dicessero della salute di una persona e perché fossero così riprovevoli. Ma ero a conoscenza che Courtney Love li aveva, e questo mi bastava per sapere che facevano ridere.

«Quando Kurt è morto, sono caduta in questa spirale senza fine» raccontava nel 2012 a The Fix, un sito web che si occupa di dipendenze e riabilitazione. «Mi facevo da quando aprivo gli occhi la mattina a quando andavo a dormire la sera».1 Il suo album uscì quattro giorni dopo la morte di Cobain. La bassista della band morì di overdose pochi mesi dopo. Courtney si chiuse in casa «tutti i giorni c’era qualcuno fuori dalla sua abitazione, chi saliva sugli alberi, chi gettava microfoni nel cortile»2 e il suo primo concerto lo fece singhiozzando, inserì nelle canzoni allusioni alla sua morte imminente e poi stramazzò sul palco.

Questo era il mio costume per Halloween. Vestita come una madre in lutto, il cui marito si è fatto saltare in aria il cervello, mi facevo da sola i segni delle iniezioni per far sembrare tutto più vero. Era fico, era divertente, avevo dodici anni.

È facile dire che non si dovrebbe disprezzare una donna solo perché fa sesso o si spoglia. Quasi tutti fanno sesso, o quantomeno possiedono genitali da poter mostrare in foto. È anche facile dire che, se una donna è triste o arrabbiata per una relazione finita male o violenta, non dovrebbe essere punita, perché la perdita, come tutti sappiamo, genera tristezza. E questi sono crimini che anche le “ragazze per bene” possono commettere, sebbene inavvertitamente. Non è difficile provare compassione per loro.

Ma non si è trainwreck fino in fondo se non si è passate per i preliminari. Anche se spuntate una o due caselle della lista, potreste comunque cavarvela, tornando a casa un po’ malconce. Le donne che disprezziamo dal profondo non fanno errori banali, non hanno difetti comuni; non sono semplicemente piagnucolose, appiccicose, un po’ sgualdrine o volgari. Sono quelle che ci incuriosiscono morbosamente, le uniche che ricordiamo non in particolari circostanze, ma per immagini: Amy Winehouse che cammina per le strade di Londra senza camicia e senza scarpe. Lindsay Lohan in posa con un coltello tra i denti. Amanda Bynes con la sua terribile parrucca di Halloween, Sinéad O’Connor che strappa la foto del papa, Britney e il suo maledetto ombrello. Si trovano nel punto preciso in cui eccesso sessuale ed eccesso emotivo si scontrano, si fondono e danno vita a un miscuglio che tiene insieme entrambe le cose, nessuna delle due, e che è peggiore di entrambe. Sono dipendenti, deliranti, suicide, violente: sono pazze.

Questa storia parla di immagini. Perciò torniamo indietro per un momento a quando i blog e i giornali scandalistici non c’erano ancora, e neanche la fotografia, e arriviamo a un particolare quadro dipinto nel 1876, in cui è rappresentato il leggendario ospedale parigino della Salpêtrière.

La Salpêtrière era un istituto nel cuore di Parigi che accoglieva tutte quelle donne che avevano fatto una brutta fine. Ce n’erano a migliaia. Pensato in origine come struttura di detenzione per senzatetto, con il tempo vi erano entrate sempre più donne: o bevevano troppo o avevano malattie sessualmente trasmissibili, o avevano un ritardo mentale o erano epilettiche, o erano vecchie o prostitute, o vedevano cose, sentivano voci o si rifiutavano di mangiare. Nella Salpêtrière i crimini erano tanti ma la punizione sempre la stessa: qui, in quella che Georges Didi-Huberman chiamò «la città delle donne incurabili»,3 venivi incatenata al muro e lasciata morire.

Dalla Salpêtrière a «tmz» il passo è breve, bastano tre dottori e due quadri. C’è Pinel, il nostro primo dottore e l’eroe del quadro numero 1: Philippe Pinel à la Salpêtrière di Tony Robert-Fleury. Pinel ha idee innovative e ardite su come gestire la Salpêtrière. Innanzitutto, via le catene. In fondo, queste donne sono creature razionali segnate da una deformazione del modo di ragionare da disturbi mentali, se preferite , che un medico potrebbe guarire parlando con loro. Perciò Pinel decide di togliere le catene alle pazze.

È bizzarro, tuttavia, che nel quadro di Fleury Pinel sia a malapena visibile. Per riuscire a notarlo, bisogna guardare bene: un uomo di mezz’età, sobrio e dignitoso nel suo bel completo, così scuro che quasi scompare sullo sfondo. Il soggetto del dipinto è piuttosto ciò che Pinel sta liberando: un paesaggio di pallida carne femminile, preda delle convulsioni e dello sguardo altrui.

Una ragazza, con la sottile camicia da notte bianca che le scivola dalla spalla mostrando la scollatura, sorride confusa mentre un uomo l’afferra per le braccia. Una donna dall’aria arrabbiata, con una camicia aperta sul petto, si allunga in ginocchio verso chi guarda, con la bocca aperta. Un’altra giace per terra, la schiena inarcata, annaspa: si è strappata il vestito e mostra un seno nudo.

Ah, giusto, poi c’è qualche vecchia strega. Certo, dovremmo concentrarci su quello che il dottore ha fatto, ma sappiamo tutti cosa siamo venuti a vedere. Queste ragazze, così carine, così pazze, incapaci di controllarsi, non riescono nemmeno a tenersi i vestiti addosso. Oh mio dio, che orrore. Oh mio dio, che vergogna.

Oh mio dio. Guarda che strane, queste pazze, non si può proprio distogliere lo sguardo.

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