Connessioni – in libreria per E/O nella traduzione di Riccardo Duranti – è la prima opera saggistica di Kae Tempest, vincitore del premio Mercury, poeta premiato da Ted Hughes, acclamato drammaturgo, romanziere e principale cronista creativo dell’ultimo decennio. È anche la prima pubblicazione di Kae Tempest da quando ha cambiato il suo nome da Kate e ha usato i pronomi loro/lei.
Connessioni è un libro-saggio il cui soggetto è stato in qualche modo superato dagli eventi recenti. La sua tesi – che il nostro bisogno di connessione può essere favorito dalla creatività in generale e dall’arte dal vivo in particolare – è diventata tanto più convincente dopo il lockdown. A chi non è mancata la carica elettrica che crepita tra artista e pubblico? O non si è sentito frustrato per come la musica dal vivo e il teatro sono minati e liquidati da un governo che non riesce a riconoscere il loro immenso valore?
Ma Kae Tempest non sta parlando semplicemente di perdere una bella serata ad un concerto o ad uno spettacolo. Connessioni guarda alla creatività come a un mezzo per contrastare l’intorpidimento del mondo moderno.
Siamo così presi nella ruota del criceto consumistica che trascuriamo ciò che è vero dentro di noi e tra di noi.
“In uno stato di disconnessione, l’autoconsapevolezza è una delle prime frequenze ad essere scovata e messa in sordina. Quando questo accade, ho bisogno della creatività per riconnettermi”.
Chiunque abbia visto i Tempest dal vivo ha probabilmente assistito al loro talento nel creare connessioni
In tutto, ci sono tonalità familiari di misticismo e di mindfulness, di teorizzazione anticapitalista e degli argomenti di tune-in, drop-out degli hippies. Più esplicitamente, Tempest scrive di essere ispirato da Il Libro Rosso di Carl Jung e dalla sua teoria che possediamo un selvaggio dentro di noi, un interiore “spirito delle profondità” così come uno “spirito del tempo”, l’ego quotidiano che si preoccupa di obiettivi e ambizioni più immediate. Entrambi sono necessari, scrive Tempest, ma li abbiamo sbilanciati. Per ritrovare il nostro equilibrio, dobbiamo recuperare la capacità di andare in profondità, di “allontanarci dalle cose esterne” per affrontare “ciò che è in noi stessi”.
Ogni capitolo è preceduto da citazioni di William Blake, e non c’è da meravigliarsi che la sua scrittura piaccia a Tempest: il lavoro di entrambi gli artisti è interessato ad attingere a qualcosa di antico e mitico. L’appello della Tempest a riconnettersi con quello che Blake chiama l “Infinito dentro di noi” si dimostra persuasivo e profondo.
Chiunque abbia visto Kae Tempest dal vivo ha probabilmente assistito al suo talento nel creare connessioni perché “Mi è concesso l’accesso a una libertà così risoluta che mi lascia brillare dalla testa ai piedi… Guardando la folla, vedo finalmente la realtà. La gente sente davvero le cose”.
Mentre alcuni pensieri potrebbero non essere nuovi, sono sicuramente degni di essere ripetuti in questo mondo disconnesso e distratto. E Tempest, come ci si aspetterebbe, li trasmette splendidamente, ritmicamente, ma anche con chiarezza e una grazia feroce.
Gian Paolo Serino
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Non puoi mai sapere ciò che basta, a meno che tu non abbia conosciuto prima l’eccesso
WILLIAM BLAKE
Uscire in scena può essere un’esperienza solenne. C’è un momento assordante quando esco dalle quinte e vedo il palco davanti a me, quando sento il corpo in estrema agitazione e tutto il mio essere si riduce a una minuta consapevolezza di ogni convulsa immissione di sangue e ossigeno. L’energia mi si concentra al centro delle mani e spinge verso l’alto dal plesso solare. Scuoto le membra nel tentativo di rimettere in moto i nervi, emetto lunghi suoni per far vibrare la gola e le labbra, ma il momento esaurisce tutte le energie. Dura fino a quando non prendo il microfono dall’asta, me lo porto alla bocca e comincio a parlare.
Negli anni in cui imparavo il mestiere, uscire in scena era un’esperienza gioiosa, rivelatrice, stimolante e continua a esserlo. Ma più lo faccio, più comprendo quanto sia seria. Stare in piedi davanti a una sala ampia e buia come una caverna e trasmettere qualcosa della mia verità a gente che non conosco, ma che per molti versi è convinta di conoscermi ed è venuta all’evento con le esigenti speranze che derivano dall’aver tirato fuori i quattrini del biglietto, aver trovato la babysitter, programmato di avere una serata libera, aver attraversato mezza città o mezzo paese per assistere allo spettacolo; o con le speranze più modeste della gente trascinata da amici o da partner e a cui poco importa essere lì e che in ogni caso non sa neanche cosa aspettarsi; oppure le speranze sospese di critici, giornalisti o blogger che sono lì per mantenere una certa distanza piuttosto che prendere parte all’esperienza. Appena esco sul palco sento tutta quell’energia. Incontrare la sala ogni sera può essere un’impresa formidabile. A volte è come affrontare un mostro gigantesco e scivoloso, altre volte è come liberare un uccellino da dentro di me e osservarlo volare in alto verso la luce. Non so mai quale delle due esperienze si verificherà.
Quando avevo poco più di vent’anni facevo anche tre o quattro spettacoli a sera per tre quattro sere alla settimana e avevo preso l’abitudine di riposarmi un po’ appena se ne presentava l’occasione. Ricordo che una volta, in un concerto in un piccolo festival, io e i ragazzi del gruppo, Archie Marsh e Ferry Lawrenson, eravamo seduti su un divanetto dietro le quinte in attesa del nostro turno di uscire in scena e io dormivo alla grande. La persona sul palco prima di noi ci ha annunciati a gran voce, i miei compagni mi hanno scosso e hanno detto: «Coraggio, tocca a noi», io ho aperto gli occhi ed ero in funzione. Ho afferrato la mia birra e via sul palco senza alcun problema. Il palcoscenico era la continuazione del divanetto. Non c’era niente per cui prepararsi; era una cosa del tutto naturale. Lo potevo letteralmente fare anche dormendo. Un sacco di volte è capitato di andare via direttamente dal palco, attraversare la folla di corsa per arrivare alla metropolitana, viaggiare fino all’altro capo della città per un altro spettacolo. Raggiunto il posto, saltavo la fila, mi facevo largo tra la gente fino al palco, un paio di bicchieri, poi salivo su e ricominciavo. Parecchie volte qualcosa si rompeva, l’impianto s’inceppava e così dovevo improvvisare lo spettacolo con quello che c’era a disposizione. È successo spesso di interpretare il personaggio Tempest-forte-ma-amichevole che poteva affrontare qualsiasi cosa e quel personaggio di solito mi permetteva di cavarmela. A me andava benissimo; all’epoca interpretavo lo stesso personaggio anche fuori dal palcoscenico. Il punto è che in realtà non c’era niente all’infuori del palcoscenico. Tutti i giorni si trattava di tirar fuori parole per chiunque riuscissi a trovare che mi ascoltasse e quella realtà era totalizzante. Era diventata tutta la mia esistenza.