Raccontare la disperazione oggi è cosa comune. Si torna sempre lì, alla periferia. Che sia Napoli o Dublino, poco importa. Il cemento è cemento ovunque e la droga se ne frega dei suoi sudditi, è un’ovatta speranzosa che attutisce il rumore delle grida, quelle che vengono da fuori e quelle all’interno della propria casa.
Kenny è un figlio di questo mondo. Nato e cresciuto negli O’Devaney Gardens – un quartiere popolare della Dublino Nord che dagli anni Cinquanta ospitava centinaia di famiglie abusive – il ragazzo è un figlio della strada, la sua voce è la voce degli invisibili, trascorre le giornate in un continuo alternarsi di risse tra compagni, partite a calcio e reclusioni alcoliche in qualche appartamento asfittico.
Il punto di vista si sposta con frequenza durante tutta la narrazione e la voce di Kenny è la stessa dei suoi amici: una confessione corale di suoni, odori, emozioni; emergono dalla materialità di queste gigantesche cattedrali di cemento che – con le loro facciate grigiastre e le rampe di scale piene di scritte – diventano parte attiva dell’opera stessa.
I Blocks si fanno quindi personaggi senzienti in grado di corrompere, affascinare, assuefare, spingendo i suoi abitanti verso il baratro o, in rari casi, verso una salvezza da guadagnarsi azzannando la vita. I palazzi osservano, i palazzi giudicano, i palazzi urlano e la loro eco si propaga attraverso i long-balconies in un’infinita litania dell’abbandono. L’unico modo per sopravvivere è fare branco. Kenny non soffre la solitudine, detesta commiserarsi e l’assenza del padre non gli impedisce di affezionarsi ad altre persone.
Nell’arco di queste duecentottanta pagine che scorrono al ritmo di un convulso spoken word, la parabola di questo giovane sbandato dall’animo sensibile e irrequieto si farà percorso universale di un’intera working class. In un mondo di disperati e disillusi il cui grido di battaglia si affievolisce giorno dopo giorno, l’unica possibilità di redenzione dalla ricerca della prossima vena libera da infilzare si riduce a una sola risorsa: l’immaginazione. Quella capacità innata nell’essere umano di riuscire a vedere oltre la materia, oltre lo scheletro delle intercapedini dilaniate, oltre i corpi spolpati dall’eroina. Una tenacia indispensabile che permette a Kenny di rifugiarsi, fin da piccolo, in una fantasia caleidoscopica, circondandosi di api gigantesche, minacciose banshee e altri bizzarri personaggi. E allora basta un battito di ciglia per far sì che un branco di tossici disperati si trasformino nei “melmosi”, personaggi da evitare e temere, partoriti da un’inventiva salvifica che lo accompagnerà lungo tutta l’adolescenza per poi affievolirsi lasciando il posto ad amici in carne ed ossa che non sempre si riveleranno tali: Georgie, Jimmy, Tommy, Rooner, Tara, Edel, Ma’, Pa’, Charlo… ragazzi che, come Kenny, condividono lo stesso fallimentare cordoglio.
Dublino in questo romanzo è una voragine grigia che fagocita sogni e aspettative: non si può fare altro che vivere, sopravvivere, per non trasformarsi nell’ennesimo melmoso che ciondola lungo marciapiedi imbrattati dal vomito di altri melmosi. Non resta che accendere lo stereo e ballare a tutto volume sulle canzoni dei Doors, gli Stone Roses, i Verve e i REM. Le note e i testi fanno scattare qualcosa e Kenny sente un richiamo, forse un dono, la possibilità di prendere quella massa di furore incandescente e farne arte.
Ci proverà con la musica: una band che si ispira agli idoli che sono stati colonna sonora della sua adolescenza ma subito puntuale torna lo spauracchio della droga: concerti che sono il pretesto per sballarsi, alcuni pezzi validi, annacquati in un mare di insicurezza e poi, quando tutto sembra perduto, la soluzione/apparizione: restare fedeli alle parole. Amare, come hanno fatto Byron, Blake e Bloom. Rendere tributo alle anime ispiratrici, ai maledetti della Beat Generation, questa volta con la poesia. Questa volta, forse, imboccando la strada giusta.
Karl Parkinson è cresciuto in due complessi popolari di Dublino nord, prima a Ballymun e poi negli O’Devaney Gardens ma quanto ci sia di autobiografico in quest’opera a noi poco importa.
The Blocks è un romanzo di formazione che unisce forme narrative di spoken word, fiction, poesia scritta, memoir in un’architettura narrativa estremamente eterogenea che rimanda alla struttura labirintica di quegli stessi caseggiati in cui è stata partorita (da elogiare il notevole lavoro di traduzione a cura di Beatrice Masi, che ha saputo mantenere intatto lo spirito originale dell’opera attraverso l’uso sapiente di un italiano neo standard e sub standard).
Gli O’Devaney Gardens sono stati abbattuti nell’Ottobre del 2018 ma le voci, le storie e le gesta dei suoi abitanti restano impresse nelle pagine di quest’opera. Un manifesto intriso della sofferenza esistenziale di un ragazzo, il cui grido disperato si trasforma in un requiem corale che scoperchia il lato più scomodo della letteratura irlandese.
Stefano Bonazzi
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The Blocks
Karl Parkinson
Battaglia Edizioni
15 euro — 280 pagine