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Katie Williams anteprima. Il mio omicidio

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Il mio omicidio” di Katie Williams (Bollati Boringhieri, 2023 pp. 240 € 18.00), nella traduzione di Costanza Prinetti, esce nelle librerie il 13 giugno, uscita in contemporanea con gli USA. Il libro concentra in ogni pagina l’originalità incalzante della tensione introspettiva. L’autrice domina la cinica e impaziente intensità della storia narrata, stravolge l’accattivante intreccio psicologico, supera la regola ordinaria del thriller d’autore, presenta un romanzo denso di imprevedibili inquietudini. Utilizza l’abile accorgimento della misteriosa e spaventosa analisi sui segreti della mente, sull’interazione emotiva dei personaggi attraverso la rappresentazione di enigmatiche incognite, nei tratti stilistici comici e drammatici, connette l’identificazione tortuosa dell’universo immaginario con l’attrazione coinvolgente per il profilo torbido dell’umanità, raffigura con brillante destrezza uno scenario costituito dal tema universale della provocazione, nella confessione crudele della condizione relazionale con l’azione delittuosa. La protagonista Lou è una donna serena, coniugata e madre di Nova, ma è anche una copia di un’altra Lou, assassinata da un serial killer che è stato catturato anche per l’omicidio di altre quattro donne. Le cinque donne, in riferimento alla complessa proposta di riesumare la loro identità, vengono richiamate alla vita e restituite allo scopo di sperimentare ancora l’esistenza grazie alla sconcertante finalità di un avveniristico disegno di clonazione. Le donne unite dallo stesso doloroso e angosciante vissuto, fronteggiano la propria ineluttabile fatalità e compensano l’efferatezza dello spietato crimine aiutandosi reciprocamente. Lou sceglie di comprendere il ritratto del proprio assassino, analizzando l’intenzionalità delle sue circostanze, tenta di afferrare la convinzione del movente, l’origine della scelta. La svolta improvvisa e sorprendente di una verità rivelata compromette insospettate conferme sulla manipolazione affettiva, elabora una natura negativa e non rassicurante dei sentimenti, preannuncia l’intrigo di ogni ragione insondabile, incastra l’incognita della fiducia verso le persone che ci circondano. Katie Williams sostiene la tensione narrativa con l’espressione efficace dell’ambiguità, utilizza il ritmo ossessivo per trattenere la misura indagatrice e prolungare il senso della sospensione, in attesa di riconsegnare l’espediente della risoluzione nell’effetto coinvolgente delle pagine che animano il timore e l’incredulità. “Il mio omicidio” traduce la materia esitante dell’animo femminile, insegue l’oscuro lineamento psichico dei comportamenti, le manifestazioni tenebrose della natura umana, conferma il tratto caratteristico del genere letterario legato alla suspense domestica. Katie Williams oltrepassa la condanna della depressione post partum, le perplessità dell’inconscio e le privazioni delle attese, rafforza la propria volontà emotiva attraverso l’incredibile capacità di descrivere la prospettiva della maternità, di rendere la libertà nelle alternative autentiche delle donne, intreccia l’avvincente e intelligente partecipazione inventiva con la profonda capacità di creare una sorprendente e inattesa ossessione per l’audacia. La scrittura di Katie Williams nutre la cadenza vorticosa delle parole lungo l’argine pressante degli eventi inaspettati, padroneggia l’approccio alla spiegazione interiore con la lusinga investigatrice della sfumatura, divora l’impulsività, dimostra la scorrevolezza di un montaggio parallelo della vita, incredibilmente geniale.

Rita Bompadre

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L’anno prima del mio omicidio era stato l’anno in cui gli sconosciuti mi fermavano. Era cominciato tutto agli albori della gravidanza, quando Nova era solo una curva segreta della pancia. La gente per strada aveva iniziato a fissarmi, arrivando a voltarsi quando la incrociavo. I bigliettai mi sorridevano e dicevano «Salve, bentornata!». I camerieri si toccavano il mento e mi chiedevano, «Dove ci siamo già visti?». Un mistero. Un gruppo di lontani parenti si era per caso trasferito in zona? Assomigliavo a una qualche nuova attrice famosa? Poi un pomeriggio, a metà del secondo trimestre, il mio capo, Javier, si era presentato alla porta, vibrante di energia fino ai baffi.

«Javi, ma che succede?» gli avevo chiesto, uscendo in veranda. Mi aveva presa per le spalle. Non l’avevo mai visto così. Javi era sempre rilassato, sempre tranquillo e raggiante. Per lui, fare il manager consisteva nel gridare complimenti dalla porta aperta dell’ufficio. Lì in veranda Javi era sembrato un altro, occhi sgranati e mascella serrata. In centro, mi aveva detto, aveva intravisto su uno schermo un servizio su una delle vittime degli omicidi. L’aveva scambiata per me. Anche dopo aver guardato meglio, e aver capito che la donna mi assomigliava e basta e che il nome non era affatto il mio, non era comunque riuscito a scrollarsi di dosso la sensazione che si trattasse di me. Aveva sentito il bisogno di vedermi di persona, disse. Poi mi aveva preso la faccia tra le mani e aveva sospirato di sollievo, come per paura che proprio quelle mani potessero giungersi passando attraverso il cranio.

Ecco, quindi, la soluzione del mistero. Ecco chi ricordavo agli sconosciuti: una delle donne accasciate qua e là per la città, una delle donne che avevano infestato le notizie, una delle donne con le scarpe sistemate accanto al corpo, come in attesa di essere rindossate. Dopo che Javi se ne fu andato, ero rimasta davanti allo specchio dell’ingresso, guardando sullo schermo la foto della vittima e confrontando le nostre facce, pallidi ovali su vetro. Eravamo entrambe bianche con lunghi capelli scuri, sulla trentina. Lei, la donna uccisa, tale Fern, era più bella di me, luminosa dove io ero spenta, delicata dove io ero spigolosa, simmetrica dove io ero sbilenca. Però, se inclinavo la testa in un certo modo e stringevo appena un po’ gli occhi, capivo cosa vedevano tutti quegli sconosciuti. Ci assomigliavamo.

Allora mi ero versata in testa una confezione di tinta, un rosso tendente al viola. Il colore mi aveva lasciato sulla scriminatura una macchia rosa, simile a una bruciatura. E non aveva fatto la minima differenza. Gli sconosciuti continuavano a fermarmi. Continuavano a fissarmi e a pizzicarsi il mento con le dita. E non riuscivano a inquadrarmi. Quindi avevo imparato a stare calma, a lasciare che passassero in rassegna ex compagni di scuola di vario grado e annunciatrici meteo locali. Avevo imparato a sorridere e a dire, «Ho semplicemente una di quelle facce».

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