Arriva oggi nelle librerie italiane per Camelozampa, con la traduzione di Claudia Valeria Letizia, Il dito contro (pagg. 277, € 17,90), romanzo YA firmato dalla scrittrice Kristina Aamand e pubblicato in Danimarca per la prima volta nel 2016.
Come spesso accade nella narrativa per ragazzi che sono già fuori dall’adolescenza o in procinto di allontanarsene, ci troviamo davanti a una storia dove si incrocia un arcobaleno di tematiche.
Fra di esse quella che appare preminente riguarda il rapporto genitori-figli e, in senso più ampio, società-adolescenti. Nello specifico de Il dito contro, si racconta di ragazzi di prima generazione che devono cercare un punto di equilibrio fra quanto richiesto dalla società ospitante e il bagaglio culturale proveniente dalla famiglia; fra una resistenza a essere accolti (anche dai propri coetanei) e la necessità di mantenere una identità.
Tema ostico e spigoloso, che la danese Aamand tratta con dovizia di particolari, facendo leva sul campo dell’amore e degli affetti perché deflagri.
Il romanzo è quasi totalmente sulle spalle di Sheherazade, diciassettenne siriana fuggita dal suo paese insieme alla famiglia a causa delle “opinioni letterarie” del padre. È lei che racconta in prima persona quanto è accaduto alla sua famiglia e quanto le accade. Aamand per fare questo “sdoppia” il racconto inserendo nel romanzo delle pagine costruite come le fanzine di una volta: foto ritagliate e testi scritti a mano. Lì scopriamo il perché la famiglia di Sheherazade sia fuggita dal suo paese.
L’uomo scriveva poesie «sul sole e gli olivi, sulle mani rugose di mia nonna che aveva lavorato tutta la vita e protetto i figli teneramente. Sull’amore, la lotta per la libertà e il diritto alla terra», tutte cose che il nuovo governo non ha visto di buon occhio. Gli anni di galera lo hanno fiaccato nella mente e nel cuore, permettendogli la salvezza sono nella condizione di esule.
Ma se il padre è alle prese con turbe mentali e con un problema di malfunzionamento cardiaco, Sheherazade resta per lui “la sua freccia verso il futuro”. Una speranza di riscatto, forse, che la madre traduce in regole prese dalla tradizione del paese di provenienza: portare il velo, non fumare né bere, arrivare illibata al matrimonio ecc.
Come dire che il volere materno segna il destino della figlia. Per cui lei studierà medicina, farà il medico. Conta nulla la propensione alla scrittura, l’essere una creatrice di fanzine originali. Tutto scompare davanti al volere della genitrice. È Sheherazade stessa a scomparire anche se, come spesso capita, cerca di essere ugualmente una brava figlia. Occulta se stessa, il suo voler vivere in maggiore sintonia con la contemporaneità danese.
Probabile però che il senso di ineluttabilità da cui si sente invasa, vincerebbe. Ma le tradizioni, a ben vedere, sono elementi identitari, di appartenenza a un gruppo, qualcosa insomma che si accetta per essere riconosciuti. Sheherazade non vi precipita perché viene colta da un sentimento amoroso che la sposta e tanto.
Il sentimento ha il carattere e le fattezze di Thea, quasi una compensazione yin-yang. È infatti bianca, danese, agiata, libertaria e altro ancora.
Quello che accade fra le due ragazze è qualcosa che, con maestria, Aamand fa crescere gradualmente pagina dopo pagina. Permette così al suo personaggio di evolvere nel conflitto, presentando un pensiero via via sempre più autonomo. Le permette di essere una ragazza come altre: fragile, titubante, eppure desiderosa di avere una vita da chiamare sua, di rischiare. Senza che niente di tutto ciò sia teso a discriminare o allontanare quanto di bello proviene dalla sua famiglia.
Resta comunque un libro per molti aspetti scomodo e spigoloso, Il dito contro. Perché ci mette davanti alla nostra paura dell’altro come a un universo dove resistono valori non in sintonia col nostro mondo occidentale.
Aamand, che proviene da una famiglia mista cattolico-musulmana, racconta come sia difficile vivere in una società dove regole e tradizioni non sono quelle che si conoscono, che si accettano, con cui si cresce (o si è obbligati a crescere). Ma indica anche, senza tergiversare, le contraddizioni in cui spesso cade per necessità sia l’esule sia l’emigrante volontario.
Perciò la presenza di Thea non muta l’“assetto di base”, anzi. Indica solo che esistono strade percorribili. Strade che permettono di non restare schiacciati dai ricatti morali, dai sensi di colpa, senza per questo dover abbandonare qualcosa che abbiamo dentro, che è parte ineludibile di noi.
Ed è qui che Sheherazade diventa la meravigliosa principessa de Le mille e una notte, in questo cercare un punto di incontro fra il pensiero dei suoi genitori e quella che è la realtà in cui vive quotidianamente. Fra vecchio e nuovo mondo, nell’intenzione di vivere la propria vita.
Sergio Rotino
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Susanne si volta di nuovo verso la lavagna e scrive: «Casette 1, 2, 3, 4 e 5. Significa che vi divideremo in gruppi da distribuire in cinque casette. E poi, Sheherazade, ci sei tu». Susanne sorride.
«Ehm, sì…»
«Tua madre mi ha contattato per farmi presente che dovremo organizzarci in modo che tu non dorma sotto lo stesso tetto con i ragazzi».
Mi sento il viso accaldato. Mamma ha telefonato a Susanne? E quando?
«Sì, è un fatto religioso». Susanne sorride. «Vero…? Nella vostra cultura questa cosa di ragazze e ragazzi è proibita. Cioè, stare insieme, dico». Susanne fa una risatina nervosa. «Non ognuno per conto suo, ovvio. Be’, ci siamo capiti… E comunque è una questione che possiamo risolvere senz’altro».
«Ma dobbiamo dividerci tutti fra maschi e femmine?» domanda Mille, che sta seduta dietro di me.
Io non mi volto. Continuo a fissare la lavagna e basta. Sarebbe molto più facile se andassi in una scuola frequentata da altre ragazze scure di pelle, che non possono dormire insieme ai ragazzi neanche loro. In questo quartiere all white sono una strana, è evidente.
Quella di mandarmi in un liceo di un altro quartiere è stata un’idea di papà. «Devi conoscere altre persone» ha detto, «non solo quelle che abitano nei casermoni». Perciò, eccomi qui: un cioccolatino finito involontariamente in una busta di gessetti.
«No, no, non tutti» risponde Susanne. «Non ce n’è motivo. Però possiamo e dobbiamo rispettare le altre culture. Viviamo in un mondo globalizzato. Tanto vale che vi abituiate al fatto che non tutti mangiano paté di fegato con i cetriolini e ballano intorno all’albero di Natale». Susanne si gira di nuovo verso la lavagna e prende un pennarello rosso. «Quindi, la soluzione è che si fa un gruppo di tutte ragazze. La casetta numero 1 sarà girls only».
Dietro di me si sente un sospiro sommesso. È Mille. Tutti gli altri restano in silenzio.
«Allora, chi vuole andare nella casetta delle ragazze insieme a Sheherazade?»
«Io» dice Kim, e tutti ridono.
«Anch’io». Mikkel si alza e si mette a ballare. «YEAH, ci voglio andare anch’io nella casetta delle donne. Voi, ragazze, che dite? Se mi volete, forza, prendetemi…»
«Siediti, Mikkel». Susanne ha la faccia stanca
«Sì, ma se dormiamo in casette miste, non è mica detto che succeda qualcosa che va contro la cultura di Sheherazade, giusto?» Katja mi guarda. «Perché è così? Che potrà mai succedere di così pericoloso?»
«Eh, che potrà mai succedere se si chiude un ragazzo in una stanza buia con le signore qui presenti, dopo una giornata intera di cane a faccia in giù?» Mikkel fa la boccuccia e strizza l’occhio.
«Ma noi siamo ragazzi con la testa a posto. Mica facciamo pazzie. A me va benissimo rispettare il fatto che Sheherazade sia stata educata in una maniera diversa dalla nostra, ma forse sarebbe utile proporre altre soluzioni» dice Katja.
«Ottimo input». Susanne si ficca il pennarello in una tasca dei jeans attillati e incrocia le braccia. «Per esempio, cosa?»
«Magari potrebbe cambiare qualcosa, se la scuola informasse i suoi genitori sul significato vero di questo campo scuola. Se dicesse che non usciamo fuori di testa e facciamo cose sconce o haram». Katja mi guarda negli occhi. «E comunque scusa, non dobbiamo parlare come se non ci fossi. Tu che ne pensi?»
Agnete interviene già mentre alza la mano. «Integrazione è incontrarsi a metà strada. Se costringessimo altre persone a fare qualcosa, sarebbe assimilazione».
«Cose sconce o haram». Mikkel si alza e comincia ad ancheggiare.
«E siediti, Mikkel». Susanne è arrossita. «Sheherazade, tu cosa ne pensi di questa faccenda?»
“Io ne penso che in questo momento mi sembra di avere una teglia rovente sotto il culo”.
«Io ne penso che veramente non ho abbastanza energie per diventare il vostro progetto di integrazione». There, I said it!
«Ma non lo sei, figuriamoci…» Susanne si è seduta sulla cattedra. «Anche se capisco benissimo che la sensazione possa essere quella. Il problema è che noi, da un lato, dobbiamo rispettare le regole vigenti nella tua cultura e, dall’altro, dobbiamo soddisfare le esigenze di questa formazione. E la gita ha una rilevanza notevole anche nell’ambito della sfera sociale, che ormai ha la stessa importanza della sfera educativa. Prendiamo per esempio il networking: fare rete si basa moltissimo sulle competenze sociali. Accontentare tutti è incredibilmente difficile. Ed è ovvio che a noi farebbe un gran piacere se venissi anche tu, Sheherazade.
Allora, vorrei dei nomi per la casetta numero 1».
Susanne si alza e torna alla lavagna. «Nomi di ragazze. Sheherazade, possiamo iniziare da te». Susanne scrive il mio nome sotto la casetta 1. «Chi altra?» Nell’aula non vola una mosca. «Altre ragazze che vorrebbero stare nella casetta 1? Vabbè, allora intanto creiamo i gruppi delle altre casette».
Alzo la mano. «Posso andare al bagno?»
«Certo, Sheherazade, tanto tu sei già a posto».
In corridoio tutto tace. Le porte delle aule sono tutte chiuse. Entro nei bagni e mi metto davanti al lavandino. Guardo nello specchio: i miei occhi ricambiano lo sguardo con espressione seria. Mi sciolgo il velo e lo appoggio sul lavandino, poi mi levo l’elastico e lascio cadere i capelli sulle spalle. Scrollo la testa, con le mani mi smuovo i capelli – che diventano una chioma gigantesca – e mi guardo allo specchio. Adesso sembro una principessa guerriera furibonda che decide lei in quale casetta stare. Anzi, che decide lei se ha voglia di fare una gita del cavolo con un branco di sfigati.
Dovrei andare a trovare papà. Scrivere a Thea. Fumarmi una siga con lei e chiacchierare dei posti in cui va con la sua famiglia quando partono in giro per il mondo. Magari un gi
orno potremmo fare un viaggio insieme noi due. Piantala, Sheherazade! La conosci da cinque minuti. Che ne sai di chi e com’è? Apro l’acqua fredda e ficco le mani sotto il getto brusco finché le dita non mi diventano insensibili. È difficile riannodare il velo con le dita gelate. Mi rimetto lo spillo, mi guardo allo specchio e sorrido. Non me ne frega niente. Non me ne frega niente. Dico sul serio! Tiro fuori il telefono. Thea Søndergaard. Ce ne sono varie che si chiamano così. Controllo le foto dei profili; non è facile riconoscere la gente su quelle fotine, ma alla fine la trovo: Thea. 17 anni. Copenaghen. Una Thea con un sorriso smagliante, sole e spiaggia sullo sfondo. Clicco sulle sue foto: Thea al banco di un bar con un long drink in mano, vicino a due tipe in canotta aderente. Ha un’aria contenta. #BarBarcellona #lovelife. Sai l’emicrania che verrebbe a mamma, se vedesse uno scatto così della dolce Sheherazade. Thea ha parecchi follower. 876. Una ragazza popolare.
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Ciao, ci vediamo?
La ragazza dei pittogrammi.
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Quando rientro in aula, sulla lavagna sono stati aggiunti dei nomi. Cerco con gli occhi la casetta 1. C’è ancora scritto solo Sheherazade. Nient’altro. Fuck a tutti quanti! «Bene, si comincia a capire qualcosa». Susanne osserva la lavagna con aria pensierosa. «Allora, se spostiamo qui Katja e Mille, e spostiamo lì Tine, ecco fatta la casetta delle ragazze».
Tine scuote la testa. «Io in quella casetta non ci voglio stare. Non esiste proprio che questa cosa mi venga imposta». «Neanch’io ci voglio stare» borbotta Mille.
Katja mi sorride. «Per me va bene».
«Tine e Mille, voi passate nella casetta delle ragazze, perché così è». Susanne ha alzato la voce.
«Quindi, devo essere obbligata a fare una cosa che non voglio fare, perché dobbiamo rispettare le altre culture?» dice Tine. «Be’, mi sembra un pochino strano rispettare i valori di Sheherazade e i miei no. Alla fine, viviamo in Danimarca».
«La Danimarca è una democrazia che tiene conto delle esigenze delle minoranze» dice Kim battendo il pugno sul banco. «In quanti altri posti succede che si tenga conto di disabili, anziani e bambini, tipo in autobus, o che so io?»
«Quindi, stai dicendo che Sheherazade è un’handicappata». Tine scuote la testa. «Bravo, Kim, complimenti».
«Lo sai benissimo anche tu che non è quello che intendevo. Io dico solo che se una persona ha certe difficoltà se ne tiene conto. Magari faremmo bene a ricordare anche che è la madre di Sheherazade a volere così. Qualcuno ha chiesto il parere tuo, Sheherazade?»
«Torneremo su questo discorso in un altro momento! Sperando che gentilmente vi dimostriate un tantino più flessibili». Susanne si siede sull’orlo della cattedra e fa un respiro profondo. «Okay, questa cosa si affronta insieme, e sarà sicuramente una gita bellissima. Ma il tempo corre e bisogna definire il programma, per cui direi di proseguire con il prossimo punto all’ordine del giorno, cioè: cosa vogliamo mangiare? Sheherazade, ovviamente faremo in modo che ci sia un menu halal…»