Nel 2001 David Alliot intervistò Colette Destouches- Turpin (1920-2011), la figlia unica di Céline avuta dalla seconda moglie, Édith Follet, dopo aver consultato le brevi memorie sul padre e sulla sua famiglia da lei redatte in tarda età. Una testimonianza eccezionale, vista la discrezione della donna, che concesse solo un’altra intervista in tutta la sua vita, a «Paris Match» nel 1994. Nata il 15 giugno 1920, passò la sua infanzia a Rennes – Céline scrisse per lei la fiaba Histoire du petit Mouck, illustrata abilmente dalla moglie, disegnatrice di professione – e quindi a Parigi, dopo il divorzio dei genitori e le seconde nozze della madre Édith. In seguito si sposò contro il volere paterno – Céline riteneva che il futuro genero, l’avvocato Yves Turpin, fosse un cacciatore di dote, cosa che per un periodo incrinò i loro rapporti, anche se non nella maniera tranchant usualmente riportata (tra l’altro, da Céline stesso), visto che si recava spesso in visita al padre a Meudon; un affetto filiale contraccambiato dal provato Louis-Ferdinand.
Da piccola, [mio padre] mi faceva un po’ paura. Bisogna dire che il suo modo di vestirsi e altro era parecchio camaleontico […]. Mi ricordo di un rinfresco (punto abituale d’incontro di mio padre, mia madre e me era sovente l’Hotel Lutetia) ove apparve con un soprabito sopra le righe per colori e originalità. Uscendo dal Lutetia, mia madre mi disse: «Mi sembra di aver sposato un clown, da giovane».
Mio padre abitava all’ultimo piano di uno stabile in rue Lepic. Due vani e una cucina. Elizabeth Craig stava nella stanza più grande. L’altro vano, adiacente al salone, aveva una finestra che dominava Parigi. Spesso, mio padre e io ci accostavamo e lui mi indicava le strade e i monumenti, spiegandomi la loro storia. Mi raccontava della sua giovinezza, il quartiere dell’Opera, il passage Choiseul, eccetera.
Mi fermavo spesso a dormire in rue Lepic durante questi periodi con mio padre. Dormivo nel lettino dello studio, a quel tempo il Voyage era in fase di stesura. Si sedeva alla scrivania, in questo stesso locale, che era anche la nostra stanza. La scrivania era davanti alla finestra, e quando scriveva aveva questa vista magnifica di Parigi… Scriveva soprattutto la notte, dormiva pochissimo. Il muro era completamente pieno di scritte, parole, frasi annotate… Alla fine della scrittura del Voyage au bout de la nuit non c’era quasi più spazio. Era molto anarchico, non aveva un ordine preciso. Mio padre scriveva tutto ciò che gli passava per la testa, ma riusciva sempre a ritrovare il filo… La sera, mi raccontava delle fiabe e mi metteva a dormire; quando mi addormentavo, prendeva a scrivere. Solamente, teneva accesa la lampada della sua scrivania per buona parte della notte. Avevo il sonno leggero, e non era facile dormire. Di tanto in tanto mi chiedeva: «Dormi, Colichon?». «Sì, papà.» Facevo finta di dormire. Mi faceva la stessa domanda un po’ più tardi. Non rispondevo più, ma tenevo un occhio aperto e lo guardavo. Avevo difficoltà a prender sonno con la luce accesa. Ma, soprattutto, parlava da solo e a voce molto alta, si alzava, andava in giro parlando ancor più forte. Mi spettavano tutti i personaggi, che sfilavano innanzi a me e che speravo morissero presto. La notte era molto lunga… Parlava da solo anche durante la giornata e mi ascoltava distrattamente con un sorriso gentile. L’ho anche sentito ridere di quel che aveva appena detto a sé stesso.
Ricordo che ero con Marguerite Destouches il giorno dell’assegnazione del premio Goncourt… Mio padre era molto deluso dal fatto di averlo mancato… Nonna Destouches, che adorava suo figlio, esclamò: «Ne ha passato così tanto di tempo a imparare il suo argot!». Mio padre cambiò molto dopo l’uscita del Voyage… Era più pessimista, più cupo. Elizabeth era partita e mio padre ne aveva fatto una malattia. Mia madre era venuta appositamente da Rennes per farlo ragionare, per rincuorarlo…
Quando uscì Mort à crédit, l’intera famiglia fu sconvolta da questa parodia estrema di Fernand e Marguerite. Questa madre aveva una tale fiducia in suo figlio! Pia, non mancava mai una messa la domenica. Docile, ingenua e cie- ca d’ammirazione per Louis, ubbidì scrupolosamente alla proibizione di aprire il libro. «Devi impedire a tua nonna di leggere Mort à crédit» mi disse. «È un romanzo, non la realtà, e lei non riuscirebbe a capire la differenza.» Volubile com’era e non ascoltando mai le risposte alle sue stesse do- mande, non fu difficile scoraggiarla. Nondimeno, avrà mai sospettato qualcosa?
Quanto allo zio Louis, si piccò di aprire il libro. Schiumò di rabbia, i suoi occhi neri da vecchio seduttore lanciavano fiamme! Urlò: «Ve l’avevo detto, è un criminale, è un orro- re». Dall’alto della sua statura d’hidalgo, vociferò ingiurie, con il sorprendente accento delle periferie che distruggeva la sua bella presenza. Quante parole inutili nella sua loquacità aberrante. Ciononostante era veramente un brav’uomo, e nei tempi cattivi fu di una dedizione notevole per suo nipote.
A sedici anni subii una delusione amorosa. Il mio fidanzato si era dileguato perché ero la figlia di Céline. Perciò, non aveva più voluto sposarmi. Ero corsa da mio padre, pensando di trovare consolazione e conforto; era per me la risorsa suprema, un rifugio contro le avversità. Provò a consolarmi: «Anzitutto tratteremo questa delirante emotività». Louis argomentava vigorosamente, pensando di guarirmi definitivamente dal matrimonio. Dovevo rimanere nubile. L’idea che potessi un giorno sposarmi era per lui intollerabile. Dovevo mettermi in testa che gli uomini erano tutti poligami: era la natura a volere così. Ne profittò per raccontarmi le sue esperienze sentimentali. Cosa che non mi consolò affatto. Ripartii all’alba, ancor più scossa di prima. Al momento del commiato disse frasi rassicuranti, come: «La vita è più un ospedale che un baccanale», e ancora: «L’esperienza è una lanterna che rischiara solo chi la porta».
Mi ricordo del suo ritorno da quel famoso paese nordico. Mio padre mi aveva convocato dal signor e dalla signora Marteau. Loro l’avevano accolto con bontà e generosità nella loro magione a Neuilly. Ero talmente commossa nell’andare a questo appuntamento che non ricordo né il giorno né l’ora. Mi sembra, essendo arrivata puntuale, di aver aspettato molto a lungo, con il cuore che mi batteva.
Notai che i muri dello scalone erano ricoperti da grandi affreschi dipinti da Gen Paul, rappresentanti degli episodi del Voyage. Erano giganteschi, i personaggi erano a grandezza naturale.
Le proporzioni dell’insieme erano quelle di un castello… Infine, proprio in cima, vidi un vegliardo irriconoscibile scendere sfiorando gli affreschi, molto lentamente, piangendo a dirotto. Eccolo da me, si gettò tra le mie braccia, e allora lo riconobbi. Era così leggero, così vecchio… Non parlammo. Le nostre lacrime che cadevano, qualche parola incoerente, ed era tutto… avevamo detto tutto…
Traduzione di Andrea Lombardi via David Alliot, che ringraziamo.