Carlo Donat-Cattin giudica la Democrazia cristiana come un partito che deve farsi portavoce di diversi interessi e di diverse attese che provenivano dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione alle esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e al sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la sua azione al rispetto della persona e a una visione pluralista e articolata della società. Da qui la sua frequente insistenza, a veder riconosciuta l’importanza della componente operaia in seno alla Dc. Scriveva a Moro l’8 maggio 1962: “non condivido l’apprezzamento della trascurabile importanza, nel campo nostro, dell’elettorato operaio, dei lavoratori. Ne hanno come numero e ne hanno, oltre ai numeri, per la spinta politica che nascerà se si ridarà loro la fiducia nella democrazia e nella Democrazia cristiana. Perché non vieni, una volta, a Torino o a Milano a parlare, a vedere sul posto come vanno le cose?”. Potremmo parlare quasi di un disperato tentativo di trovare una strada, una via d’uscita in grado di salvare la vita di Moro. Affermò in seguito: “L’hanno ucciso. Hanno colpito un uomo superiore, una grande mente politica. Hanno colpito tutti noi, il Paese”.
(“L’Italia di Donat-Cattin. Gli anni caldi della Prima Repubblica nel carteggio inedito con Moro, Fanfani, Forlani, Andreotti, Piccoli, Zaccagnini, Cossiga, De Mita (1960-1991)” a cura di Valeria Mosca e AlessandroParola , Marsilio, pagine 273, euro 28)
(Francesco Malgeri – L’ Osservatore Romano – Pag. 5 – 22/01/2012)