La carne di Cristò Chiapparino, è un romanzo pubblicato da Neo edizioni nel 2020 nella collana Iena, con la postfazione di Paolo Zardi, e suddiviso in sette capitoli, lineare, telegrafico, crudele, a volte venato di una surreale vena pulp. Lo stile è tanto impersonale quanto coinvolgente perché ci sono due storie, due persone, la prima e la terza, alternate, alterate. A tratti la freddezza di Revolver di Isabella Santacroce a tratti una malinconia calcolata e archetipica à la Dissipatio H.G. di Guido Morselli. Il finale è un calcolo matematico, sebbene imprevisto, un incontro che ricorda Nebbia di Miguel de Unamuno. Ma quello che leggerete è «una storia che non ha niente a che fare con tutto questo».
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In esergo una citazione del Banco del Mutuo Soccorso: quali sono i rapporti che intrattieni con la musica e in particolare con il rock progressivo? e La carne lo definiresti una polifonia di sguardi? una partitura ben orchestrata?
Con la musica intrattengo rapporti stretti e antichi; da bambino ho imparato a leggere le parole e le note contemporaneamente. Non considero il Banco del Mutuo Soccorso come un gruppo di rock progressivo, credo che sia un’etichetta piuttosto fuorviante per loro, io credo fermamente che abbiano fatto melodramma, musica classica operistica. La carne è certamente costruito assecondando il gusto della polifonia più che le sue regole che a mio parere sono poco applicabili alla letteratura sebbene alcuni grandi scrittori come Kundera e Bernhard ci siano riusciti.
« (io sono la cornice perfetta di una raccolta di racconti potenziali)», alla fine del II capitolo l’atmosfera – c’è un gatto che si chiama Moebius – volge verso una struttura di incastri, prima persona, seconda persona, e la voce narrante è non del tutto attendibile. Potenzialmente questa scrittura potrebbe strizzare l’occhio a Raymond Queneau: mi sbaglio?
Non sbagli ma c’è una differenza sostanziale: Queneau dava alla sua scrittura regole stringenti (la famosa gabbia da cui fuggire di cui parla Calvino), io non l’ho fatto, anzi ho scritto La carne senza sapere nulla della struttura e della trama; ho scritto come se stessi leggendo, stupendomi volta per volta mentre le cose accadevano. Non ho ingabbiato la scrittura con regole oulipiane, mi sono messo nei panni dei personaggi, ho guardato e ho scritto.
« La pentola suona come una campana. Disegno una campana.» Il narratore parla, e è un bambino. La testa di un bambino tra i capelli di un ottantenne, per citare Jean Paul. Sebbene virato verso uno scenario sinestetico (il tulmine!), da realismo psicotico, il tuo romanzo fa i conti con la storia, il passato è presente. Il futuro, non si sa. Quali sono state le tue influenze letterarie e filosofiche?
Ho scritto questo romanzo molti anni fa; in realtà è il secondo romanzo che sono riuscito a concludere. All’epoca la mia scrittura era molto influenzata dalla letteratura americana, in particolare da Vonnegut i cui libri hanno accompagnato la mia formazione da lettore per tutta l’adolescenza. Ma probabilmente è stata anche la prima volta che, scrivendo, mi sono liberato dalle influenze abbastanza da evitare il calco, l’imitazione, la parodia. A livello filosofico il romanzo è, invece, molto influenzato da alcune conversazioni con Michele, un mio caro amico docente di filosofia medievale all’università, dai saggi di Augusto Illuminati su Averroè e dalle teorie di Douglas Hofstadter sul funzionamento del cervello.
« Per un bambino anche la prospettiva è una magia», e per uno scrittore? come nascono i personaggi de La carne?
I personaggi sono nati dentro la scrittura, mentre scrivevo e le loro azioni corrispondono al loro carattere che via via sentivo sempre più familiare. È un gioco di ruolo, in fondo, o, per renderla un pizzico più intellettuale, una sorta di metodo Stanislavskij. Mi sono immedesimato in tutti loro, mi sono spezzettato. La prospettiva della scrittura è il tempo, un tempo complesso perché è il tempo dentro la storia, il tempo in cui la storia viene scritta e il tempo in cui la storia viene letta.
« Io credo che qualcosa abbia inibito la loro capacità di elaborare metafore, analogie; simboli, insomma», dice Giuseppe, un amico del narrante nel VI capitolo. La metafora, dice Lakoff, è una questione di razionalità immaginativa. E il romanzo si apre con una ‘castrazione’ reale (tra l’altro sogni e sintomi sono metafore, per dirla à la Lacan) e un percorso di consapevolezza della realtà. Che ci puoi dire del simbolo, come ha orientato la tua fantasia di scrittore?
La questione dei simboli è la parte che devo alla visione filosofico-scientifica di Douglas Hofstadter: lui sostiene che il cervello umano funzioni grazie alla capacità di creare analogie e che, senza questa capacità, non potremmo vivere. Ho semplificato moltissimo una teoria che lui ha sviluppato in decenni di ricerca e numerosi bellissimi saggi. Mentre scrivevo, in particolare, leggevo il suo Anelli nell’io, un libro che approfondisce e precisa il suo saggio più famoso Gödel, Escher e Bach. Una delle mie più grandi aspirazioni segrete e che Douglas Hofstadter possa, un giorno, leggere La carne.
Questo è un domandone cui puoi anche non rispondere e che però nasce dalla curiosità di comprendere i luoghi e il corpo fuori, o accanto, alla scrittura:
Dove scrivi, quando scrivi, dove cammini quando ti riposi?
Scrivo a casa, solo quando non c’è nessuno. Sono anni che non mi riposo, non trovo il tempo.
In quale città o paese è nato il tuo ultimo libro, in che stanza, in che bar?
La prima metà de La carne è stata scritta a Bari, a casa. La seconda, quasi un anno dopo, a Palermo per strada.
Sei mancino o destrorso?
Purtroppo destrorso.
Passeggi?
Amo molto camminare, anche a lungo.
In bici, in auto, osservi alberi?
Credo che siano loro a osservarci; anzi, ne sono certo.
Scruti cornicioni, affondi lo sguardo nel cielo, segui le onde del suono dell’acqua?
In genere seguo i colori.
Quali sono i rumori della città e quali i silenzi delle vaste campagne?
I rumori in cui vivi diventano silenzio, i silenzi a cui non sei abituato li senti nelle orecchie.
Fumi?
Molto
Bevi?
Non reggo benissimo, quindi non troppo.
Quanto pesi?
Boh!
Scrivi dopo cena, prima di pranzo?
In genere la mattina.
La tua è scrittura di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo?
Direi una scrittura di esplorazione, di ricerca, di viaggio.
Intervista a cura di Gianluca Garrapa