«Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Italo Calvino, Le città invisibili
Era la notte delle stelle cadenti in campagna, nel Lazio, e guardavo il cielo. Il cielo di notte a volte è troppo in questi posti. Si sente la mancanza della città quando le stelle fanno paura. La loro luce, così potente da attraversare universi, ci mette tanto tempo ad arrivare che quando noi la vediamo potrebbe essere già spenta. Noi, con la nostra infinitesimale pancia in su, persi nelle più ignote periferie dell’universo.
Non ho retto e sono andata a dormire pensando a una città come chi pensa un amore lontano.
Nel sogno sono arrivata a Córdoba, al mio appartamento da studente e alla stazione del pullman dove lavoravo. Fuori c’era il cane randagio che a mezzanotte quando chiudevo mi accompagnava a casa. Quando arrivavamo non cercava mai di entrare, aspettava che aprissi il portone e tornava alla stazione.
Sogno spezzato dalla ghiandaia che strillava nella mia finestra. Le prime luci indicavano che non erano nemmeno le sei. Mi sono alzata come un ladro per non svegliare nessuno e sono uscita. Come un ladro in punta di piedi per il centro della propria storia, perché è al centro che tutto accade, no? Come in paese.
Al centro c’erano il bar, l’edicola, la posta, il tabaccaio, l’alimentari, la chiesa, la farmacia, il forno e una macelleria. Era lì che tutto accadeva, che si montavano i mercatini, le sagre e le balere a cielo aperto nelle notti estive. Fuori dal centro la città si allargava disordinata e abusiva, creativa, volgare e povera, improvvisata e rammendata albergava le belle e misere vite private.
Per ogni finestra un dramma, una commedia da ridere e piangere come maschere, un sogno bello, uno strazio, un amore corrisposto, uno impossibile, uno usurato con le scarpe bucate, uno maltrattato… un figlio sano, uno malato, quelli che crescono e restano, quelli che crescono e vanno e a Natale torneranno.
C’erano i preti, le maestre, le prostitute straniere e quelle locali, gli anziani con la sedia fuori dalla porta all’ora del tramonto, a guardare la vita degli altri con tenerezza o spietatezza, a seconda di quello che dalla vita erano riusciti a prendere a loro volta.
Sedie fuori dalla porta che ubbidiscono a un vecchio richiamo randagio ma lì si fermano, tra la casa e la strada, sulla soglia, temendo e desiderando andare, lasciare tutto e camminare con aria da padroni del nulla, così vasto, incontro al destino. Camminare sulla nostalgia, le allegrie, gli innamoramenti, i dolori, le paure, camminare e sentire un po’ fame, per vivere il sentimento che tira ma anche il corpo che chiede e così bilanciare, distrarre uno con l’altro come nel gioco delle tre carte.
E quando un po’ si è mangiato e un po’ si è camminato il sentimento, ammucchiarsi al fresco d’estate, sulle pietre più tiepide d’inverno e stare insieme in silenzio.
Silenzio nel quale riposa l’anima di noi che cerchiamo parole che non bastano mai.
Ho preparato il mate, sono andata fuori e per mia sorpresa ho trovato due cani che giravano in giardino come fossero di casa. Il realismo magico non è un genere letterario, ma un genere di vita che alcuni hanno scritto. «E voi?» ho detto ai randagi.
Uno ha fatto piano per andare via e si e fermato al viale dei cipressi ad aspettare l’altro che è uscito da dietro gli arbusti con un osso vecchio, sembrava un fossile, ma lui pareva comunque soddisfatto. I due mi guardarono negli occhi per qualche secondo, un po’ strafottenti come a dire «E tu, piuttosto?» e se ne andarono come gli stalloni quando passeggiano. Presero la strada sterrata per poi perdersi nel bosco e sparirono senza voltarsi.
Mi ricordarono i tuoi randagi, Vitali, che a loro volta mi ricordano i randagi di Paraná che bucavano i sacchi della spazzatura nella notte, cercando qualcosa da mangiare. Presenze senza dimora i tuoi cani buoni, qualsiasi strada di qualsiasi città per loro va bene, è casa, e siedono con l’eleganza dei semplici, la pazienza degli anziani, la bontà dei bambini, l’amore delle madri e delle madri delle madri, che se le volevi c’erano, e se avevi bisogno di solitudine se ne andavano, e se ti vedevano triste o in pericolo potevano riempire l’aria di profumo di pane e spostare un treno con una sola mano.
Velasco se potessimo abitare le tue città mediterranee e anche le altre con l’anima dei tuoi randagi, se potessimo essere loro e non solo loro metafore.
Se potessimo vedere da lontano le nostre città come tu le vedi, formicai dove appena fissi un punto nell’avvicinarlo lo perdi, sfuma, ti sfugge, staremo gli uni vicini agli altri. Non tanto. Quel che basta, quel che ci vuole per consolarci un po’, per rimediare un pasto insieme, senza necessitare molto altro. E i nostri palazzi, quei formicai di cemento e ferro e vetro e tegole sarebbero una specie di festa, una sagra di paese.
Ma facciamo così fatica a essere felici, di più ancora a essere felici insieme. L’illusione di possesso ha rovinato l’incanto; inutilmente, poiché niente è nostro, scorriamo su tutte le cose che non sono del tempo; e quelle che sono del tempo, come noi, sono inafferrabili, nostre solo per il tempo in cui ci scelgono. Ma se riuscissimo ad abitarle da randagi come i tuoi, le città ci sarebbero grate.
Loro ci amano, vedi sennò come vengono giù quando le abbandoniamo; diventano invisibili, grembi vuoti, castelli che si sgretolano, rotaie che non vibrano più, stazioni senza abbracci e senza adii, muri che implodono di solitudine.
Le città come opere d’arte, quadri che formiamo stando insieme, ognuna ha il suo canto, una vibrazione che la fa unica. Noi sentiamo le città e loro sentono noi, e quando il sentire è corrisposto loro sono felici di portare addosso i nostri passi e ci aprono le loro porte. Camminandole capiamo che non somigliano alle mappe né alle fotografie né ai racconti del mercato, ai pregiudizi; vivendole poi, che ogni isolato è un paradiso e un inferno a sé, ogni quartiere un paese, ogni uomo sempre un cane e quasi mai randagio, ma povero cane bastonato, cane da caccia addestrato a inseguire il cinghiale, cane da tartufo pregiato, cane di razza padrona, cane buono amico dei bambini, barbocino simpatico.
Cane legato alla sedia del tavolo dove si negozia la sua schiavitù in cambio di un ologramma di sicurezza.
Poi ci sono i cani al guinzaglio del proprio desiderio, che Lacan diceva essere sempre il desiderio di un’altro, ma se c’è e circola, traina.
Desiderare, alla radice significa interrogare le stelle che a te non sembrano fare paura, nato tra i colori, con lo sguardo educato a non perdere brillantezza mentre la mano va e traduce la tua idea e il paesaggio che ti offrono le finestre.
Guardi dentro e guardi fuori, con materiali randagi, avanzati dagli abusi delle periferie, dipingi e scolpisci l’aria che si vede nelle vele gonfie e nel volo felice delle mongolfiere.-
Mercedes Viola
(da Racconti ad arte – 14 incursioni in studi d’artista, Capire Edizioni 2021)