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La colpa è nei dettagli. Intervista a Elisabetta Foresti

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Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Elisabetta Foresti, in libreria da pochi giorni con il suo primo romanzo, “La colpa è nei dettagli “, edito da Alter Ego nella Collana Specchi curata da Roberto Venturini.

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Elisabetta, ci vuoi raccontare la tua passione per la lettura e il tuo percorso nel mondo dei libri e poi della scrittura, dove peraltro sei, a detta dei tuoi corsisti, anche un’ottima insegnante?

Per lungo tempo sono stata una lettrice senza criterio, la tipica ragazza stramba che trascorreva i pomeriggi in libreria, col naso tra gli scaffali, lasciandosi guidare dalla suggestione della pagina aperta a caso. È in questo modo che romanzi come “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” (R. M. Pirsig), “L’aleph” (J. L. Borges) o “L’arte del romanzo” (M. Kundera) sono atterrati sulla mia mensola. A fare compagnia – e lanciando occhiatacce – ai romanzi di Dick, di Herbert o di Silverberg, già sotto schiaffo per la convivenza forzata (nella medesima mensola striminzita) con Malerba, Buzzati, Salinger, Berto e Wallace per citarne alcuni.
La mia è stata – ed è ancora – una passione disordinata. Che tuttavia si è andata affinando verso il perturbante, verso il mistero e l’introspezione psicologica, unitamente a un crescente interesse per la lingua e lo stile. Sto pensando a Gombrowicz, la cui lettura di “Cosmo” mi ha aperto orizzonti, al pari di Elizondo con “Farabeuf o cronaca di un istante” o Robbe-Grillet e il suo “Nel labirinto”.
Tra gli autori contemporanei italiani, in modo diverso per prosa e per immaginario, mi hanno dato molto “Blu” e “Padri” (G. Tribuiani), “Lingua madre” (M. Fingerle), “Storia di due donne e di uno specchio” (E. Zambelli), “Fiction” (G. Mozzi), “Il pantarèi” (E. Sinigaglia) e mi fermo qui perché ne verrebbe fuori un elenco così lungo da risultare esiziale.
Quanto alla mia scrittura è oscuramente nata con i raccontini adolescenziali d’avventura e il romanzucolo di science fiction (anni dopo, saggiamente bruciato). Germogliata all’ombra di studi scientifici, diciamo pure che è cresciuta repressa. Ma mai silenziosa.
A ben vedere, ha bellamente aggirato i torrioni dietro i quali  l’avevo (o credevo di  averla) reclusa, sconfinando al punto da sottrarre ore agli esami universitari e, più tardi, alla professione (non me voglia l’ex capo, se mi legge).
Scrivevo frammenti di descrizioni, sequenze riflessive, nuclei drammatici, racconti e porzioni di romanzo – espressione di un materiale magmatico che pretendeva il suo spazio, che pretendeva la mia stessa attenzione. Mi descriveva bene, in quel periodo, una frase tratta da “La vita è altrove” (M. Kundera): si piegava su stesso per scrutare il proprio ma non riusciva a vedere altro che sé stesso piegato che scrutava il proprio io.
A furia di piegarmi e di scrutare è andata finire che ho abbandonato la professione (per dedicarmi ad un’altra meno gravosa) e, dopo un passaggio in una scuola di scrittura romana, sono approdata in Bottega di narrazione – scuola di scrittura creativa. Con il mio progetto di romanzo, i capelli corti (ossegnur), il quaderno azzurro e la bicquattrocolori.
Partecipando ai corsi di Bottega di narrazione ho appreso le tecniche di scrittura, sperimentato e trovato la mia voce, e messo a fuoco l’immaginario, le ossessioni. In seguito, grazie alla fiducia di Giorgia Tribuiani, sono giunta nel Laboratorio del mistero, da lei ideato e condotto, per affiancarla come tutor.
Sempre mi hanno interessato le scritture degli altri, è un confronto arricchente, e per me, neurotonico; così sono stata entusiasta di passare dall’altro lato. Seguire i corsisti, assisterli nella realizzazione di un racconto o di un romanzo, individuare insieme la struttura più adatta, cesellare la scrittura e aiutare a far emergere l’unicità di ciascuno, non solo è appassionante, ma uno stimolo continuo.
Il prossimo anno, nell’ambito del Laboratorio del mistero, avrò l’opportunità di tenere una lezione nel modulo “Tecniche e stili del mistero”. L’argomento sarà il “narratore inattendibile” e i diversi modi per costruirlo, a partire dal mio romanzo “La colpa è nei dettagli”, dal romanzo “La versione di Barney” (M. Richler), dal fumetto “Blast” (M. Larcenet) e da altre opere letterarie e cinematografiche.
 

A colpire subito il lettore è questa padronanza linguistica e questa scrittura particolarissima. Ci vuoi dire come è nata l’idea e poi se ci vuoi portare dentro l’officina di lavorazione e raccontarci anche come sei arrivata a Alter Ego e come è stato lavorare con Roberto Venturini?

L’idea del romanzo è nata da un frammento autobiografico: come sciogliere i conflitti nei confronti di qualcuno di fronte alla morte?, l’assenza del referente genera l’impossibilità di un confronto, la colpa per gli atti compiuti e il senso di colpa per avere lasciato che si compiessero restano sospesi, e tentare di superarli senza risolverli conduce alla stagnazione.
Il primo pensiero, legato alla colpa, è stato dunque una pena da scontare, subito accostata all’immagine di una prigione, simbolo a un tempo del corpo, inteso come involucro che costringe a esser-ci, sopravvissuto alle tempeste causate e indotte (e destinato a un deterioramento certo e irreversibile, e nondimeno oscuro) e rappresentazione della gabbia di ricordi che si mescolano, si sovrappongono, si confondono e scompaiono per volontaria o involontaria rimozione al fine di non affrontare i nodi e raccontarsi una verità adulterata, più o meno consapevolmente contraffatta. “Le cose sono per noi ciò che in fondo vogliamo che siano”, dice la voce narrante del romanzo, così l’elaborazione della colpa, nella sua duplice accezione, si traduce in una ricerca della verità.
Una verità scomoda che Marco, il protagonista, tenta di far affiorare, ma anche di reprimere. E la scrittura segue questo movimento ondivago, con l’espediente di un narratore che si contraddice, accurato nei dettagli e, a un tempo, lacunoso.
Una scrittura che fa largo uso di anticipazioni, di ripetizioni, di parentetiche e di digressioni che testimoniano la discesa nell’inconscio, e che, tuttavia, si fa arrogante e ironica nelle sequenze dialogiche, con un registro linguistico arricchito dal gergo carcerario. Scrivere questo romanzo è stata un’immersione totalizzante nell’ambiguità del personaggio, e la voce è scaturita.
Il primo passo, una volta finito (e mille altre revisionato), è stato l’invio del testo, tramite la mia agente, a diverse case editrici, tra le quali, Alter Ego, che, non nego, prediligevo non soltanto per la qualità letteraria delle pubblicazioni, ma per il manifesto sul doppio della collana Specchi: già sentivo di appartenerle.
Così, quando Roberto Venturini, direttore editoriale, ha selezionato “La colpa è nei dettagli” (che ancora non si chiamava così) sono stata molto, molto contenta. E fortunata, aggiungo, a incontrarlo. Roberto è un editor attento e sensibile, lavora con passione e rispetto per l’autore. Insieme abbiamo letto e revisionato il testo con la cura che gli è propria, scalpellando e lucidando alcune porzioni, mettendo a fuoco le tematiche centrali e definito il titolo. E dopo la consegna del testo editato, l’officina è proseguita, perché Roberto cura l’autore a tutto tondo, pone domande, discute, scava con acume e costringe a indagare e indagare ancora. E non c’è dubbio: tira fuori il meglio.
 

Alla base della narrazione c’è un parricidio commesso dal protagonista: tutto verte intorno a quattro versioni differenti  sulle circostanze del delitto, in un incredibile gioco di rimandi  e sovrapposizioni. Entrando nel dettaglio, vogliamo spiegare, ai nostri lettori forti di Satisfiction, la trama,  i personaggi e le situazioni che animano “La colpa è nei dettagli”?

È un romanzo che apparentemente racconta la storia di Marco, un giovane recluso in carcere per l’omicidio del padre, e che rifiuta la linea dell’avvocato d’ufficio circa le modalità e il movente dell’assassinio, decidendo di dare la sua versione dei fatti.
Tuttavia, per l’aggiunta e la sottrazione di dettagli, a un certo punto la sua tesi inizia a scricchiolare e Marco arriverà a fornire ben quattro differenti versioni del delitto, discolpandosi ogni volta per le contraddizioni.
La storia è dunque ambientata in un carcere, vediamo la cella di Marco con i sanitari a vista, ancorati al pavimento, il cortile di mattonato rosso scavato da crepe, e il parlatorio spoglio ma dalla cui finestra s’intravede un “magnifico belvedere”.
Nel carcere Marco si scontra con i secondini – Gianni, con il quale ha un rapporto ostile e Piero, definito “un bravo cristo” – e i detenuti tra cui spicca il 35 e la sua pestifera fiatella. Incontra il direttore, descritto come un becchino con la pipa, e subisce continui interrogatori dall’avvocato d’ufficio, nella sua giacca marmorea, e da alcuni suoi colleghi “pecorai dediti ai libri di pelliccia e affetti da pappagallismo cronico”.
Un’atmosfera claustrofobica che nel corso della storia troverà la sua ragione e la sua essenza.
Alla base del parricidio vi è il conflitto tra Marco e il padre, un costruttore e un artista, un uomo senza scrupoli, intransigente, duro e violento. Il loro rapporto, racconta il protagonista, era basato sull’ignorarsi a vicenda, sull’incomunicabilità, sul controllo esercitato dal padre nei suoi confronti, un controllo che sfociava nel maltrattamento fisico.
Ed è proprio nella violenza fisica e sessuale che Marco ravvede i presupposti dell’omicidio. Salvo poi individuare nella ragione di tale violenza, ovvero l’avere scoperto che il padre era un erotomane, il vero movente. Tuttavia, nel corso della storia, due grossi ribaltamenti rimetteranno tutto in discussione, fino a giungere al colpo di scena che non solo sarà il riconoscimento della verità-realtà, ma anche un riconoscimento del sé.
D’altronde fin dall’incipit Marco dichiara di essere un bugiardo, insinuando nel lettore il dubbio di quale sia la verità e se esista una verità. Cerca di ricostruire i fatti, omettendone alcuni e alterandone altri in maniera inconsapevole, tramite l’esplorazione dei dettagli. Che diventano un’ossessione, si fanno protagonisti della storia insieme all’inganno e alla colpa.
Vi sono dettagli ricorrenti, che costituiscono i punti fissi nella coscienza di Marco, e ruotano intorno a una verità emotiva, e dettagli drammaturgici. È una semina di indizi, di particolari realistici e di dissonanze, allo scopo di costringere il lettore a ritornare indietro per esaminare gli eventi da un’altra prospettiva e comprendere cosa sia realmente accaduto.
L’altro grande personaggio del romanzo è Elisabetta, ex fidanzata di Marco, appassionata di libri e nevrotica aspirante scrittrice.
Una donna che si esprime con una sintassi complicata, con un linguaggio contaminato da vocaboli francesi e da termini volutamente colti, quali ultroneo o delìquio. Una donna che, a detta di Marco, si riveste di una cultura “priva di significati” apparendogli superficiale, così come il trovare sempre la citazione giusta per ogni argomento, la fa sembrare “una vasta collezione di parole di altri”.
Ma Elisabetta è descritta anche come una persona fragile, maniacale, una persona che abusa di alcool e di farmaci, e che, tuttavia, domina Marco con la sua forte personalità. Infatti, la voce giudicante di Elisabetta perseguita Marco, nel corso della storia, accusandolo di mentire sull’omicidio. Finché, avviandoci verso il finale, una carrellata di ricordi e di dettagli, precedentemente raccontati e sviscerati da Marco, lo precipiteranno in uno specchio vertiginoso ma preciso, riportandolo all’incidente scatenante dell’intera vicenda: il momento in cui Marco decide di rivelare a Elisabetta la sua intenzione di uccidere il padre. E lei, prende le distanze, lasciandolo solo in questa missione.

BUONA LETTURA DE “LA COLPA È NEI DETTAGLI” DI ELISABETTA FORESTI

Antonello Saiz

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