Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti europei, da anni figura di riferimento del panorama intellettuale italiano, nonché ex ministro della Pubblica Istruzione. Lo abbiamo incontrato in occasione della presentazione del suo libro La cultura degli italiani, un libro – intervista, edito da Laterza e realizzato insieme a Francesco Erbani, giornalista del quotidiano La Repubblica.
Com’è messa oggi la cultura degli italiani?
La cultura materiale e quella della sopravvivenza è certamente migliorata nel tempo. Basta guardare alcuni indicatori come quello della speranza di vita o della mortalità infantile, altissima quest’ultima nel nostro Paese anni fa ed ora invece crollata. Ci sono aspetti dell’igiene, dell’alimentazione in cui sono stati realizzati grandi progressi, il modello di gestione della vita quotidiana è un buon modello nel confronto internazionale. Per altri aspetti, invece, le cose vanno male: i tagli ai finanziamenti all’Università, ai servizi scolastici. Tuttavia, nel complesso, i livelli di scolarità, dagli anni ’50 agli ’80 fino ai giorni nostri, sono andati via via crescendo. E’ la qualità della formazione che lascia molto a desiderare. Il cammino fatto è un cammino insufficiente nel confronto internazionale. Avremmo bisogno di triplicare i nostri laureati, di portare il cento per cento degli studenti al diploma, a un ‘buon’ diploma. Dunque, sono problemi di quantità e di qualità a metterci in grande difficoltà.
“Le parole – ha dichiarato – sono fatte non per essere dette, ma per essere capite”. Quanto incide l’incomprensione nel deformare la realtà?
Incide molto. Bisogna avere pazienza di chiedere a chi adopera certe formule che cosa intende dire. C’è chi dice “io sono per la libertà”. Ma libertà di chi, per fare cosa? Libertà mia, per fare i comodi miei? O per la libertà di tutti e, in questo caso, a quali condizioni tutti sono davvero liberi? La formula è bella, ma nasconde trappole di tutti i tipi. Dunque, necessita una buona dose di pazienza per non farsi incantare dalle formule.
Nel libro c’è un capitolo interessantissimo in cui si affronta la questione della stampa italiana e delle approssimazioni. Vuole ricordarci, anche simpaticamente, alcuni errori tipici che commettono gli italiani e che ormai non si percepiscono più come tali?
Errori di che tipo?
Errori lessicali per esempio. Si utilizzano determinate parole, non avendo piena consapevolezza del loro significato.
L’esempio della libertà, fatto prima, la dice già lunga.
Per un lungo periodo, ha diretto la rivista ‘Riforma della scuola’. I fattori che hanno portato al degrado – se di degrado si può parlare – sono tanti. Quali sono le linee guida per una riforma sana della scuola?
Il confronto internazionale è molto progredito. Sappiamo bene che cosa la scuola di base dovrebbe insegnare, sappiamo bene anche in che modo dovrebbe farlo. Le cose si complicano nelle scuole superiori e nelle università. I problemi invece che non riusciamo ad affrontare e risolvere sono altri. Intanto migliorare le condizioni strutturali, abbiamo numerosi edifici fuori norma. E questo costa. L’altro grande problema è la formazione degli insegnanti. Avevamo avviato una buona esperienza – quella delle scuole di specializzazione per l’insegnamento superiore, le SISS – che è stata azzerata e distrutta. Era un primo passo nella direzione di una formazione moderna ed efficiente. Poi bisognerebbe pagare agli insegnanti degli stipendi adeguati.
Roland Barthes, in ‘Frammenti di un discorso amoroso’, scrive: “Le parole non sono mai pazze, è la sintassi che è pazza”. In che misura si sente di condividere questa affermazione?
Sono affermazioni brillanti, ma noi linguisti cerchiamo di ragionare in termini più analitici e meno brillanti.