“Tutto quello che di meglio è stato detto, lo si è detto in greco”: così Margherite Yourcenar affermava in modo incontrovertibile, come la conoscenza, che per i Greci sta in piedi da sola, senza bisogno di prove e di parole seduttive, perché queste non devono irretire gli animi pigri, ma condurre psicagogicamente chi si dispone all’ascolto con vorace bisogno di sapere. Certo, Yourcenar, raffinatissima grecofila, nel secolo delle distopie culturali, nel deserto emotivo che ci accora, nell’apprendimento mordi e fuggi, nella crisi della scuola, si rende impellente un ritorno all’antico, perché abbiamo maledettamente perso, come preconizzato da Leopardi, l’erotismo della parola. In questi tempi dell’apparenza, in questo fermarsi sulla soglia del fenomeno, in questa ancorarsi all’hortus conclusus di poche certezze omologate, bisogna di nuovo rischiare se vogliamo ritrovare le quintessenze dell’Essere, se ci piace ancora sentire un congiuntivo ben posizionato o un verso musicale o ancora commuoverci nella contemplazione della Verità/Bellezza, che è il nucleo denso della filosofia greca.
Ecco, il greco è la lingua più musicale che l’Occidente abbia prodotto, quella cadenzata dall’accentazione, dal ritmo ora apollineo, ora dionisiaco, quella che trascina in un vortice emozionale, quella che ci fa superare e colmare l’abisso paradossale della vita. I Greci hanno trasformato la pena e l’angoscia di vivere in opera d’arte; “ Meglio non esser nati, o morire al più presto, questa è la seconda cosa”: così Sofocle nell’Edipo a Colono.
Come vivere senza la parola filosofica? Come tradurre l’angoscia alla Kierkegaard senza il volo di Pindaro? Senza il ritorno ai mito? Nei tempi bui del nazismo Simon Weil era tornata al mito della guerra di Troia; oggi, in cui impazza la tempesta della intolleranza e della xenofobia, dell’abbrutimento culturale, recuperiamo il mito di Platone e ascoltiamo l’erotismo della sua parola che è sostanza umana! Socrate ha anticipato di millenni la psicoanalisi, lui è il vero terapeuta che riformula le leggi del vivere secondo il bene e la rettitudine; leggi che la polis rigetta perché vede in lui la voce fuori dal coro, il pericolo pubblico, perché lui insegna che la vita è un abisso, che eros nasce dal caos che va disciplinato secondo ragione, se la città non vuol diventar “un vascello in gran tempesta”. Di qui la condanna a morte, mentre lui è il primo martire del dissenso: l’uomo giusto che si sacrifica nel nome delle Leggi. Nietzsche non si troverebbe d’accordo, perché Socrate avrebbe ucciso Dioniso: questa è
una parziale verità. Egli ci ha anche insegnato l’infinitezza della mente; forse l’ha temuta, ma questo è umano, terribilmente umano. Quando dice di sapere una sola cosa, cioè di non sapere, lo dice con tutta la forza erotica che gli conviene, trasmettendolo ai suoi discepoli e agli uomini tutti: non sa arrivare alla definizione della cosa in sé e per sé, ma tante altre cose egli sa. Sa parlare, puntando sull’antifrasi dell’aspetto dialogico, perché il dialogo è condivisione del discorso amoroso. Questo soprattutto ha ereditato Platone: il linguaggio erotico di Socrate, che fisicamente era simile a un Satiro, di proverbiale bruttezza, ma quando parlava era posseduto dalla divina mania.
Perché, vedete, per i Greci da sempre la bellezza si fa parola; dice Omero che quando Odisseo stava seduto non gli si sarebbe dato un soldo, ma, quando si alzava a parlare, i Greci rimanevano incantati come quando cadono dal cielo fiocchi di neve (in quella Grecia in cui non nevicava mai!) E’ la musicalità della parola che rende bello anche chi proprio bello non è: questo vale soprattutto per Socrate. Nel Simposio platonico, infatti, proprio lui pronuncia il più bell’elogio che mai sia stato prodotto su Eros, riferendo, come noto, il discorso della sacerdotessa Diòtima di Mantinea; dopo questo, mi sembra scarno e scarsamente poetico quanto ancor oggi si produce sul tema, perché lì abbiamo toccato la vertigine del pensiero e del linguaggio erotico. La bellissima sacerdotessa, che ha iniziato Socrate ai doni dell’Amore, ci incanta con tono affabulatorio: Eros è figlio di Poros, abbondanza e ingegno, e di Penìa, la povertà. Nasce dalla mancanza, ma ha un ingegno straordinario e cerca e cerca sempre il Bello, per questo il suo desiderio (che etimologicamente è un de sideribus cadere) è impetuoso, indefesso e sovrabbondante e conosce tutte le declinazioni. Si muove verso un corpo bello, poi verso più corpi belli, poi verso il Bello in sé e per sé e, quando l’anima ha trovato il Bello non può separarsene e sempre aspira alla ricongiunzione con Tutto da cui proviene.
Eros è il massimo demone, il primo dio ad apparire sulla terra secondo Esiodo, non è né bello né brutto, né maschio né femmina, né povero né ricco, lui è il Filosofo che sa di non sapere e non smette mai di cercare, perché il suo desiderio è sconfinato strutturandosi sulla mancanza. Anche io, pur desiderosa di dire, manco delle parole erotiche che possano rendere la portata poetica del testo platonico, perché Platone è un unicum nella cultura occidentale per la profonda valenza evocativa e magica del suo argomentare, per le immagini trasmesse che entrano nell’anima e non vogliono più uscirne, perché tutti aspiriamo a vedere la luce all’uscita dalla caverna. Cosa c’è infatti di più erotico di un discorso meta-erotico, dell’eros che parla di sé, in termini così veri, così propri dell’umana natura? Questo solo un filosofo greco lo poteva fare, stante la musicalità della lingua che ci lascia attoniti e la fantasia creatrice sbrigliata che solo un Greco poteva avere, lui che solo conosce come metabolizzare con l’arte la sofferenza della vita che per lui è paradossale: la peggiore malattia, in quanto mortale. Meglio non venire alla luce, ma una volta nati trasformare in forma erotica il dramma della vita, da sopportare nobilmente una volta trovato il canale espressivo.
La forma dialogica del Simposio fa incontrare senza esclusioni i diversi elogi di Eros; se il discorso di Diòtima tocca il vertice della poesia e si può far coincidere con il punto di vista platonico, nondimeno quelli precedenti, di Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, conservano una loro indubbia validità e pregnanza e sono tasselli su cui si struttura l’elogio stesso di Diòtima , perché per Platone, cosa cui dovremmo ritornare, la verità si costruisce sul dialogo e sul confronto e non viene mai data per acquisita. Potremmo dire che Platone su questa terra non esiste la verità, ma le verità, coincidenti con i diversi punti di vista che si guardano e si rispecchiano in un gioco di rimandi dialogici. Quanto siamo lontani dalle verità fittizie oggi divulgate con arrogante leggerezza!