Leggo “La depressione è una dea. I romani e il male oscuro” di Donatella Puliga. Arrivato al capitolo su Lucrezio – il più materialista e disperato tra gli scrittori latini – leggo la traduzione di alcuni suoi versi da parte dell’autrice, che dice di essersi rifatta alle traduzioni di Luca Canali (1925-2014). Di colpo mi torna in mente Luca, gli anni in cui lo frequentai (quando dirigevo la casa editrice Hacca gli pubblicai un bel romanzo intitolato “L’interdetto”; mi pare fosse il 2009). Era un uomo trasandato, duro, disincantato, aspro, nevrotico, irascibile, ma di una cultura spaventosa (di fatto aveva tradotto la migliore letteratura latina). Ogni tanto andavo a casa sua a trovarlo – in via Gregorio VII, a Roma – ma non era facile avere a che fare con lui, perché era nervoso, duro nei giudizi, collerico, esigente. Un giorno, parlando della vita, di cose concrete, gli dissi che per me era un momento difficile, perché non riuscivo a fare fronte a tutte le spese che avevo. Senza dire una sola parola si alzò e andò in un’altra stanza; poi, dopo qualche minuto, tornò con un libretto degli assegni e, sempre senza parlare, mi regalò duemila euro. Dopo averlo compilato, staccò l’assegno, e me lo diede. Aggiungendo: “Ho venduto una casa, qualcosa posso darti”. Accettai con vergogna e riconoscenza l’assegno, ma non volle nemmeno sentirsi dire “grazie”. Luca Canali era un uomo duro e aspro, ma aveva una generosità concreta, disinteressata, senza retorica. Il profondo male oscuro di cui soffriva aveva rafforzato, al di là delle apparenze, il suo sentimento solidale e fraterno della vita. Gli dico dunque nuovamente “grazie” a distanza di anni, perché non bisogna mai dimenticarsi di chi ci ha aiutato, di chi ci ha fatto del bene nei momenti difficili della vita.