Si ricorda un tempo, un’età dell’oro in fondo non lontana, in cui la critica letteraria godeva di grande considerazione in Inghilterra. Dominava le conversazioni nei pub e nei bar. La possibilità che la critica non fosse strettamente necessaria per i destini della letteratura non inficiava, anzi alimentava il convincimento che fosse indispensabile per l’umanità. Ovviamente all’origine di tutto c’era un altro convincimento, un’idea che nessun uomo di lettere osava allora mettere in dubbio: la certezza che la letteratura fosse il centro delle cose, la disciplina culturale per eccellenza. L’importanza della critica consisteva per l’appunto nell’esaltare questa centralità, nel motivarla, nel diffonderla. Gli storici della letteratura fissano l’inizio di questa Età della Critica nel 1948, ovvero soltanto un anno prima della nascita di Martin Amis, il quale, essendo figlio e figliastro d’arte, avendo cioè avuto per padre Kingsley Amis e per matrigna Elizabeth Jane Howard, crebbe imbevendosi di dispute letterarie. Divenuto una promessa della narrativa, iniziò a mantenersi lavorando nella redazione del «Times Literary Supplement». Era un giovane irriverente, portava capelli lunghi che gli cadevano sulle spalle di camicie floreali, camicie che abbinava a pantaloni a zampa d’elefante e stivali tricolori. Conduceva una vita che lo stesso Amis ricorda oggi come «alquanto bohémien, hippy ed edonistica». Ciò non gli impedì di mantenere «principi morali ferrei» quanto a critica letteraria, principi che mantenne anche in seguito, anche quando la critica perse la sua centralità, sopravvivendo soltanto nei rarefatti confini del mondo accademico, lasciando il posto alla orizzontale democrazia del web, dove il diritto di critica è esercitato da tutti.
Una cospicua parte del vasto materiale saggistico prodotto da Amis nel corso dei decenni è raccolta in un volume, La guerra contro i cliché, il cui titolo potrebbe suonare come una dichiarazione di insofferenza verso un presente imbarbarito. Non è così, chiarisce subito lo scrittore: «Deplorare il presente, deplorare la realtà è un atteggiamento quanto mai ozioso. Del presente si può dire tutto, ma una cosa è certa: ci si deve fare i conti». Del resto, non si può certo negare che perfino i critici dell’età dell’oro abbiano colto le loro occasioni per rendersi ridicoli. Il senso del titolo è in effetti un altro, riguarda quella che per Amis è la sostanza dello scrivere: una battaglia contro i cliché, appunto. Tale sostanza è a sua volta una contromisura, una risposta al punto più debole della letteratura, ovvero il suo sembrare alla portata di tutti, giacché tutti conoscono o credono di conoscere il significato delle parole e se ne servono per comunicare. Va da sé che il discorso è particolarmente scivoloso, ma Amis è fatto così: non si preoccupa certo di apparire scorretto o elitario, e afferma come niente fosse, e non senza ragione, che nel lungo periodo la letteratura resisterà alla democratizzazione e «tornerà a una struttura gerarchica». Nella sua versione originale, la Guerra è un raccolta vasta quanto diversificata, articolata in dieci sezioni che spaziano dagli interventi letterari veri e propri a testi di altra natura dedicati alla mascolinità, agli scacchi, allo sport. Saggi in cui si parla di Elvis in relazione a Andy Warhol si alternano a recensioni di romanzi, riflessioni su classici quali Don Chisciotte, racconti di incontri con importanti scrittori, incursioni nella narrativa popolare e altro ancora. Purtroppo, di tanta varietà, il lettore italiano può godere assai poco. A quanto pare la critica non patisce soltanto una perdita di centralità, perde anche pezzi: l’edizione appena mandata in libreria da Einaudi si presenta in altra veste. Delle oltre cinquecento pagine della versione originale, ne sono sopravvissute meno della metà, integrate con testi tratti da un paio di altre raccolte nell’evidente intento di limitare la selezione alla sola letteratura, concentrata su un canone ristretto. Gli autori trattati sono una dozzina e tutti ben piazzati nelle stanze buone della letteratura del secolo scorso; si va da Joyce a DeLillo lungo un arco comprendente figure quali Nabokov, Bellow, Ballard e l’immancabile Philip Roth. In effetti, malgrado il titolo identico e molte pagine in comune, l’edizione inglese e quella italiana si presentano come due libri affatto diversi, se non agli antipodi.
Il tratto saliente della raccolta inglese, vale a dire la eterogeneità dei temi, è del tutto assente nel libro einaudiano, i cui testi sono per di più ordinati in ragione della collocazione storica degli autori presi in esame. Tale scelta riserva i suoi spunti di interesse perché ha fatalmente comportato un rimescolamento di carte. L’Amis più misurato della maturità anticipa spesso le pagine in cui prende voce la sicumera tranciante della giovinezza. Tra i giudizi di quest’ultimo tenore ne spicca uno datato 1977 in cui la maggior parte di quanto scritto William Burroughs viene liquidato come spazzatura. Il vero bersaglio non è però lo scrittore, al quale si riconosce «un talento vasto e crudele», ma i suoi ottenebrati estimatori, qui rappresentati Eric Mottram, autore di un saggio che Amis trova privo di umorismo e colpevole di prender per buona qualunque cosa scriva Burroughs, «ogni sezione di logora propaganda politica, ogni pagina di dichiarazioni banali e retorica snaturata». È in fondo lo stesso bersaglio sul quale ironizza un Amis già trentenne parlando di Joyce: «Ma chi legge l’Ulisse per puro piacere? Conosco un poeta che lo porta sempre con sé nella valigetta. Conosco un romanziere che la sera, prima di coricarsi, lo consulta brevemente. Conosco un saggista che lo ostenta spiritosamente sulla mensola del bagno. Queste persone l’hanno letto; ma l’hanno letto come si legge un libro, dall’inizio alla fine?» La raccolta di questi saggi letterari deve il suo titolo proprio al testo dedicato all’Ulisse, che Amis vede come un libro sui cliché ovvero «sulle formulazione ereditate belle e pronte, sulle metafore fossilizzate». L’insofferenza non esente da snobismo verso tutto ciò che odora di convenzione è una costante in Amis, e la convenzione che probabilmente egli più avversa è l’esaltazione dello «sperimentalismo», della letteratura che si ammanta di avanguardia. Di questa idiosincrasia ereditata dal padre Kingsley, che considerava lo sperimentalismo una «presa per il culo del lettore», viene offerta una manifestazione significativa nella recensione di un famoso libro di Ballard, Crash: «Il trattamento superficiale del personaggi minori e una scrittura spesso troppo elaborata fino al limite del ridicolo rendono difficile non considerare questo libro un mero esercizio di brutale bizzarria». Siamo nel 1973, il nemico dei cliché, sebbene appena ventunenne, dispone di una penna già notevole ma non sa (e probabilmente neppure vuole) guardare in faccia nessuno.
Da un articolo risalente parecchi anni dopo, un necrologio in effetti, apprendiamo che Amis ha conosciuto Ballard di persona da adolescente, giacché fu amico di suo padre, perlomeno fin quando lo sperimentalismo non si mise di mezzo. Qui i toni sono molto diversi malgrado ricompaia lo stesso aggettivo: «Potrà sorprendere, ma era un uomo davvero simpatico, nonostante le vette di bizzarria della sua immaginazione». Amis chiude il suo ritratto definendo Ballard «un uomo che ha amato visceralmente la vita», che non è forse l’encomio migliore da riservarsi a uno scrittore appena defunto, ma nella neutralità in cui viene passata in rassegna la sua opera emergono comunque un garbo e una capacità di coglierne lo spirito, di restituirlo con misurata precisione. In fondo, al di là delle riflessioni più o meno centrate sui vari scrittori, la raccolta di Amis si fa apprezzare proprio perché evidenzia come il suo straordinario talento nel dosare le parole sia rimasto inalterato nel tempo, immune all’anagrafe. La spietatezza della gioventù è certamente altra cosa rispetto alla rispettosa accondiscendenza della maturità, ma la voce e l’intelligenza sono sempre quelle, come pure resta inalterata la convinzione che «scrivere significa combattere contro i cliché. E non soltanto i cliché della penna, ma anche quelli della mente e quelli del cuore».