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La lettera uccide

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«”La lettera uccide, lo spirito dà vita” disse Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai Corinzi (3, 6), contrapponendo alla legge giudaica in cui era nato la nuova fede di cui fu il fondatore. «Uccide», «dà vita» sono metafore, che non vanno prese alla lettera. Ad esse si può rispondere con un’altra metafora: la lettera uccide chi la ignora.» Già a leggere le prime righe della prefazione ci si sente a casa, sempre che sia consentito avere una “casa”.

Le vie che inducono alla lettera sono molte, scrive Ginzburg, e nella consegna fondativa dell’importanza della lettera si riconosce un sottinteso ebraico. Ma questi saggi sono stati scritti in una prospettiva storica aggiunge: «che, come scoprii anni fa studiando Agostino, è il frutto dell’atteggiamento di superiorità del cristianesimo (verus Israel) nei confronti dell’ebraismo.»

Il paradosso è il cortocircuito fra la scrittura e l’ascolto, la lettera e la voce, la tigre che mi divora e mi salva, l’assenza che mi tormenta da sempre, da quando lessi l e n t a m e n t e lo Zarathustra dell’amico Fritz (in terza media, lo portò a casa mia sorella che era già al liceo) e poi Agostino d’Ippona, come per Ginzburg ha funzionato anche per me, io che sono niente se non il cane del mio nulla, Agostino che mi ha consegnato a Paolo di Tarso. Sì, lo ha scritto Jabes: per l’ebreo il punto di partenza si confonde con quello di arrivo. Ginzburg ha ragione: la lettera uccide chi la ignora.

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