Non prendetelo come dato certo, stante la proverbiale evanescenza della mia memoria, ma mi pare di ricordare che la rivista fosse Linus e l’autore dell’articolo Oreste Del Buono. In ogni caso, la frase-chiave contenuta in quel vecchio pezzo dei primi 80, che mi piace citare, era esattamente questa:
“Darei tutto Lovecraft per un singolo libro di Wodehouse”.
Me ne ricordo bene a distanza di trent’anni. Una frase rimasta scolpita nella mia memoria e nel mio immaginario. Perché, da lettore appassionato sia di Lovecraft che di Wodehouse, il concetto d’istinto mi era parso inaccettabile. Ma in pochi minuti mi ero ritrovato ad assimilarlo, a giudicarlo illuminante, a condividerlo in pieno.
Lo condivido tutt’ora.
Leggere un romanzo umoristico di tono sofisticato, con perfetta tenuta del gusto, equipaggiato di personaggi formidabili, ambientato nel nostro mondo eppure desideroso di prescinderne, e capace dunque di trasportare il lettore in un plausibile altrove da camera, garbato e frizzante, è da considerarsi un dono prezioso. Prezioso perché libri del genere sono difficilissimi da scrivere. Prezioso perché letture di questo tipo sono un ricostituente dell’anima. E si capisce, dunque, la posizione di Del Buono, o chissà chi altro, ma di certo per condivisione la mia: meglio gettare l’intera legione di tetri, ferali racconti dell’autore del ciclo di Cthulhu in favore di un singolo, roseo fiorellino con protagonista Bertram Wooster o Lord Ickenham. È come affermare: preferisco la bellezza all’orrore. Preferisco il piacere alla sofferenza. Preferisco una tartina di caviale al panico.
Naturalmente è tutta una questione di punti di vista, e non pretendo affatto che il mio sia il migliore. C’è una diversa forma di bellezza anche in Lovecraft, giusto per continuare a usare il povero HP come archetipo della cupezza e dell’orrore, tanto che, per lo schivo scrittore di Providence, come detto, ho avuto anch’io un lungo innamoramento. Eppure, mi si conceda almeno questo, è assai probabile che molti lettori, e non solo quelli che condividono il mio particolare punto di vista, in questi anni particolarmente cupi sentano il bisogno di una boccata d’aria fresca e profumata. Nella narrativa italiana recente, l’orrore più o meno fantastico, e da lì la cupezza, il disagio, il male, sono sparsi a piene mani anche al di fuori del noir (si pensi per esempio ai romanzi post-apocalittici di Bertante e Scurati, o al Demone a Beslan di Tarabbia). Di contro, non ricordo d’aver letto allegri romanzi sofisticati di qualità.
Mi si dirà: ma come, sono anni che, anche in Italia, alla chick lit e lad lit, che qualcuno pensa come moderna evoluzione del romanzo leggero a-la-wodehouse, sono dedicate intere collane nelle case editrici e interi scaffali nelle librerie. E non si tratta solo di romanzi in traduzione, ma, spesso, di romanzi scritti da autori italiani. Ora, ammetto di non seguire più come una volta l’evoluzione di questi scaffali, e dunque può essermi sfuggito più di un buon libro, ma posso con sicurezza dire che la tendenza italiana è a scrivere romanzi divisi a metà tra il frizzìo del glamour e un pensoso riesame della difficile vita quotidiana (pensate ai bei libri di Lisa Corva e di Federica Bosco, per esempio). Mancano (o ce ne sono così pochi che mi sono sfuggiti) buoni romanzi completamente sereni, verosimili ma avulsi dalla realtà, ambientati in quell’altrove da camera un po’ retrò, dove la malinconia è bandita e ogni cosa, anche le disgrazie, strappa al lettore un sorriso. Mancano, insomma, le boccate di aria fresca e profumata.
Arrivo finalmente a Baci a Colazione di Gaetano Cappelli (Marsilio, 2011), e l’ho tirata tanto in lungo con l’introduzione perché a questo punto, al culmine del climax, posso affermare con soddisfazione che è un romanzo esattamente così.
Cappelli, classe 1953, è un grande scrittore. Parere non solo mio, beninteso, ma io mi permetto di classificarlo come uno dei quattro-cinque migliori italiani di quella lunga generazione che ha esordito poco prima o dentro gli anni 90. I suoi libri hanno sempre avuto un tono scanzonato, votato all’umorismo, con gallerie di personaggi potentissimi, con una sanguignità tutta italiana, un’(auto)ironia tipica di chi vive al sud (Cappelli è di Potenza) e trame solitamente tridimensionali, complesse, stese su lunghe campate temporali. Qui, con Baci a Colazione, Cappelli ha messo il suo talento al servizio di un’operazione particolare, e ne è uscito un piccolo libro, diverso dalla sua solita produzione e perfetto nella sua sofisticata leggerezza. Mi spiego: il romanzo nasce su commissione, e cioè per essere pubblicato, a puntate, sul quotidiano Il Messaggero. Così è accaduto, nell’estate del 2011. Ci sono stati dunque limiti imposti di lunghezza parziale e totale: ogni puntata giornaliera era un capitolo (di circa 8000 caratteri, se non ho sbagliato i conti), e i capitoli una trentina, quanti i giorni del mese di agosto. La storia, giocoforza, doveva essere breve, lineare, il numero dei personaggi contenuto, i colpi di scena garantiti, l’unità di luogo fortemente consigliata. E così, con un equilibrio quasi perfetto, è stato.
I protagonisti sono Stefano Refoschi, scrittore ex enfant prodige, in disperata crisi dopo una lunga serie di libri pessimi, e Serena Drago, scrittrice di best-seller vagamente new age, giunta, nonostante gli eclatanti successi delle vendite, a un improvviso blocco dello scrittore, causato dallo spegnersi della fiamma dell’amore, sua unica fonte d’ispirazione. Il nuovo romanzo di Resfoschi è così repellente che nessuno vuole pubblicarlo. Riceve l’unica offerta da Fedele Solmi, editore di tutto il catalogo della Drago. Qual è il razionale? Che Solmi Editore, in crisi, ha bisogno che la Drago torni a pubblicare per risollevare le proprie sorti. Che la Drago scriverà di nuovo solo se innamorata. Che Refoschi era stato, guarda caso, un amore passato e sfortunato della Drago, quando lei aveva esordito, tanti anni prima. E che, dunque, la pubblicazione del fetente romanzo del Refoschi, insieme a un buon compenso addizionale, arriverà solo se lui si darà da fare per far ri-innamorare di sé la scrittrice di best-seller, così da rinfocolare la fiamma che la porterebbe a scriverne uno nuovo.
Intricato e bislacco piano wodehousiano, che presta il fianco ai necessari, numerosi imprevisti. L’azione si svolge fuori dal mondo urbano, in una “spa”, insomma un albergo con terme dalle parti di Saturnia, versione moderna e italica del castello di Blandings o delle ville di campagna delle zie nobili di turno. I personaggi sono una galleria di stravaganti, di furbacchioni, di ingenui estremi e di cattivi totali. E poi, naturalmente, Cappelli, che è un talentuoso, ci mette del suo, cioè le sue situazioni e caratteri paradossali, molta aneddotica colta, un tono narrativo svagato e autoironico (cioè ironico verso la funzione dello scrittore e verso il mondo dell’editoria), il senso del ritmo e della battuta. E poiché siamo nell’Italia del nuovo millennio, non nell’Inghilterra tra le due guerre, qualche concessione al sesso e alla commedia all’italiana deve esserci. Eppure – e qui di nuovo è tutto talento dello scrittore – anche quando si sfiora lo scabroso, la volgarità non si sente mai. Anche le gag, le battute, gli aneddoti più sconci sono solo irresistibilmente comici: come una strizzatina d’occhi, un frizzo lanciato con un’alzata di spalle durante una conversazione colta tra cari amici.
Certo, qualche imperfezione c’è. La struttura originale a capitoli giornalieri impone che, ogni tanto, Cappelli si metta a fare dei piccoli riassunti delle puntate precedenti (che non hanno più ragione d’essere nel libro), così come la necessità di riempire un contenitore di esattamente 8000 caratteri per capitolo ha richiesto, talvolta, compressioni o dilatazioni. O, ancora, si sente la voglia di tenere il lettore col fiato sospeso a fine capitolo, di nuovo legata alla struttura a feuilleton dell’opera.
Ma mi sento ugualmente di gridare al miracolo. O, se volete, mi sento di gridare di piacere, pagina dopo pagina. Baci a colazione è stato per qualche giorno la mia tartina di caviale scaccia-panico, e sia benedetto.
[e lo dico tra parentesi, qui alla fine, che in fondo di differenza ne fa poca: ma Gaetano Cappelli, discretamente interrogato su Wodehouse, mi ha confessato di non averlo mai letto. Chapeau]
Piersandro Pallavicini