Non tardò ad arrivare per Céline il momento in cui ormai “della reputazione gli importava poco”. Ma aveva dovuto attraversare l’inferno – e questo è noto a tutti. Anche quello dell’incomprensione altrui, non del tutto immeritata però: in questo sbaglia Dominique de Roux, un altro irregolare – quando il termine poteva avere ancora un qualche significato -, minore va da sé, che impiegò i suoi quarant’anni di vita, dal 1935 al 1977, in un’alacre attività di polemista, editore e agitatore culturale, peraltro con una collana “Cahiers de l’Herne”, nella quale apparve un lavoro decisivo, La morte di Céline, insieme un pamphlet, una sgangherata biografia, una sorta di esagitato poema in onore del grande scrittore francese. L’opera (si era agli inizi degli anni Sessanta) era destinata a cambiare la sorte postuma di un artista vero e di un uomo che ne aveva combinate di tutti i colori – implicato in faccende la cui gravità il suo ideale allievo faticò inutilmente a sminuire. Anzi: De Roux, più che dividere l’opera dall’autore secondo l’elementare principio che uno scrittore magnifico può benissimo essere un imperdonabile carogna, sembra vedere in Céline una paradossale, ilaro-tragica esperienza di santità. In queste pagine appare non solo l’inventore di una lingua, di un’arte peculiari, ma l’uomo che completa i suoi studi in medicina con una tesi sul dottor Semmelweis: ossia su un perseguitato nonostante o forse perché salvatore dell’umanità. E quale uno, tale altro.
Non stupisce l’enfasi e il tono iperbolico che De Roux mutua dal suo oggetto, come i salti ellittici nel racconto che presuppongono una certa conoscenza dell’argomento nel lettore. Quel che conta è che però con il suo libro (tradotto per Lantana da Valeria Ferretti per la cura di Andrea Lombardi), capace di tenere insieme persino lirismo e sarcasmo, finalmente si segna uno spartiacque nella ricezione di Céline, si comincia a guardare ai testi, alla scrittura, alla petit musique che egli persegue ancora negli ultimi anni, quelli della Trilogia, quando ancora “avrebbe perseverato, anche per non venir meno al suo personaggio, a oltraggiare, a vomitare insulti”. De Roux scrive che “La sua ambizione era ribellarsi”, ma, aggiunge, “Céline, a differenza di un Benn o di un Pound non pretendeva di risolvere niente, moralista delle cause finali, severo ma fiacco”. Nell’impresentabile Céline v’è tuttavia lo scrittore che fa di voce e ritmo e racconto un’esperienza vertiginosa e si mette a muso duro contro il mondo mafiosetto delle comunelle letterarie.
Che difatti non glielo perdonano. Q uando muore, il 1 luglio del 61, “nessuno ne parlò, anche perché fece molto più rumore la fucilata che a poche ore di distanza si sparò Ernst Hemingway”. Aveva appena terminato Rigodon. “Fu ucciso dai suoi colleghi scrittori; da questa consorteria di gentucola unita (in ogni epoca) per autocompiacersi del proprio talento e scacciare l’uomo libero, lo scrittore senza compromessi, colui che finisce in cella, in fin dei conti, per il suo rifiuto di appartenere a chicchessia”. Oggi più di ieri: niente di immaginabile da solerti ma pavidi impiegatini delle lettere, che si atteggiano ad autoironici ma non rischiano nulla, nemmeno di scrivere una recensione onestamente perplessa sul fortunato trombone di turno. La carriera letteraria agli occhi di De Roux è una menzogna da nulla: “il primo venuto può arrampicarsi facilmente e ingannare il pubblico, con la complicità della moda del momento”. Resta la cervellotica sottovalutazione dell’antisemitismo di Céline, il quale millantava di non sapere niente di piani goebbelsiani, di non aver fatto niente di rilevante che potesse davvero farlo ritenere un collaborazionista, odiato dalla stessa Germania hitleriana, che il suo posto più ovvio fosse quello nella resistenza “ma sarebbe stato come passare da una servitù all’altra” – lo scriveva nelle lettere alla segretaria Marie Canavaggia, tradotte qualche anno fa da Archinto. “Malferme e capziose autodifese” (Ceronetti): sì, ma quante volte, a fronte dei ricamini esistenziali di “spiriti prostrati” e conventicole da festival, la pagina di Céline risuona come una musica, un parola necessaria?