La musica del desiderio. Sonia Caporossi, Hypnerotomachia Ulixis, Carteggi Letterari, 2019: un’impressione…
Il viaggio nella mente dell’io desiderate che Sonia Caporossi intraprende è bello, nel senso di estetico, e è estetico nel senso di anello che borda quell’impossibile a dire con le parole del linguaggio umano. In certo modo ho rivisto Flatlandia in quel pavimento bianco e monodimensionale, ho rivisto Joyce, ho rivisto tutta la cultura filosofica del linguaggio che l’autrice ha saputo rielaborare in toni mai retorici (è in voga nelle nuove letterature ostentare, per deficienza d’immaginazione, cultura, e antichi oggetti culturali). Non è solo interpretabile come viaggio psicoanalitico e cosmico, ma proprio come pastiche intelligente che pare, heiddegerianamente, costruire il viaggio futuro di un moderno Ulisse a partire dal canone iconografico del passato in chiave, però, anti-tradizionalista. Il viaggio è anche il confronto con lo specchio della propria personalità, contro il paradigma narcisistico, e quando dice io, l’autrice è altrove. Il narratore recide i legami con il proprio egocentrismo richiamandone spesso la marca dell’io e silurandola di dissacrante autoironia. La scrittura di Sonia Caporossi è massimalista e si avvale di frequenti assonanze, allitterazioni, giochi di parola; l’ironia spinge il movimento narrativo verso il cuore stesso della narrazione, e in effetti, il viaggio nel corpo del moderno Ulisse è proprio quello del linguaggio che piove sul corpo e lo frammenta. Potenti, al riguardo, le scene in cui gli organi parziali assurgono a punti di vista narranti, il corpo deframmentato si ricoagula.
È il transito, ricorda molto il transito perenne del desiderio, il motore mobile.
[…] perché niente di ciò che sosta nella speranza di una qualsiasi fissità potrà mai eguagliare in purezza e perfezione ciò che transita e, avanzando, s’affina.
I riferimenti letterati e filosofici espliciti sono numerosi e vanno dalle Sacre Scritture all’amato Kant, da Aristotele al circolo di Vienna. Mi pare interessante quel riferimento, implicito certo, al Carmelo Bene dell’Hamlet Suite (non ho un amico io che sappia raccontare la mia storia) e il riferimento mi pare tanto più azzeccato perché l’operazione di Caporossi è proprio una ripresa crossmediale delle fonti letterarie e filosofiche nel pervertimento della forma. Certo, più immediato è accostare, in negativo, in solitario, il viaggio onirico-erotico del capolavoro del 1499 Hypnerotomachia Poliphili. Sebbene l’amante della moltitudine, qui è un uomo davvero solo, fino alla fine. E anche il sogno d’amore svanisce per diverse vie. Volatilizzato nel finale di Polifilo, nel dubbio del finale aperto di Ulisse.
Se solo ci fosse qualcun altro con me, qualcuno a tenermi compagnia in questo pazzesco viaggio sragionato.
Ma è anche un viaggio che non può non tenere conto della Cosa intorno a cui il narrante e la narrazione si dibattono: quell’estimità cosale che pur essendo dentro e parte di noi, è sì remota, lontana, fuori: Tu sei dentro di me restando fuori di me, e proprio per ciò, sei la più compiuta manifestazione del verum factum di me stesso! E questa Cosa, che trapela nelle ombre, in quelle silhouette che sono il ricordo presentissimo e attaccato ai corpi delle cose, questo Ding è proprio l’obliata prima morte come distacco primigenio: neanche l’amore è mai stato per me una degna elaborazione di quel lutto che consiste nel distacco primigenio dalla materna Carne delle Carni da cui sono stato partorito, in un tempo talmente lontano nel tempo da sembrare assenza di tempo. In questo senso l’amore per la conoscenza e l’amore per il linguaggio non sono un tutt’uno ma uno il profilo in movimento del viaggio, e l’altro il fronte immobile e immutabile che non traligna dal sentiero: fuor del linguaggio, il pensiero non appare che specchio di sé stesso.
Linguaggio non dimentico dell’esperienza musico-poetica di Sonia Caporossi, esperire pragmatico nella produzione musicale di una band in cui ogni elemento è legato al movimento dell’altro e dell’Altro: Quanto affetto affaticato mi ha ferito d’affettazione: l’allitterare come incalzante desiderio, si diceva prima, fa della scrittura di Caporossi una protesi conoscitiva che non amplifica l’immaginario dell’Io quanto l’immaginazione dell’Es, e ancora, il reale impossibile che accade e a cui accede il raziocinio di Ulisse è sempre un quantum di disinformazione, più conosci, meno sei. Più sai, più sai di non sapere. Più devi scordare, nel senso di rimuovere il timore dell’oblio. Una strategia difensiva del pensiero che produce l’esatto opposto: apertura trans-mentale e meta-onirica. L’allitterare, il corrispondere di significanti fra loro, pulsioni di morte in vita e di vita frantumata in agonia. È scrittura desiderante questa: è itinerario casuale e in cui il progresso nell’indefinito è a sua volta geometrico costruirsi della forma stocastica in sette capitoli, in simboli netti e precisi. È desiderante questa scrittura perché partorita dal corpo del reale e agganciando il simbolo della scrittura e l’immaginario del sogno. Sperimentale è questo gioco romanzato del sogno: la luce che emana è di un bianco profondo che mi inonda di un nuovo tipo sperimentale di fastidio sulla superficie non abbronzata della pelle: sperimentale è un significante guida all’interno della produzione di Caporossi. Non si tratta di scrivere lungaggini misteriche e incomprensibili, ma lasciarsi andare allo spettacolo che prova a miscelare esperienze creative diverse.
Sai, sono morti in campi pieni di filo spinato, dove uccidono con il gas, e poi sono stati gettati in buche insieme agli altri, e sono rimasti lì: fin troppo chiaro il riferimento all’Olocausto, nella cornice che inquadra proprio un concetto di cultura e di linguaggio, perché in causa è messa proprio la memoria. Tout court. La memoria ha un ruolo fondamentale in questo romanzo, dall’incontro con il Ciclope del giallo in poi. Memoria storica e individuale. Memoria come oblio rigenerante. Memoria che fissa il linguaggio e di si fa corpo: Desossiribomefistofelico: c’è la genesi di un linguaggio che identifica il DNA e si fa corpo, al modo di quella Lituraterra lacaniana in cui proprio sul corpo si incista la pioggia del significante e in modo casuale di cui però il corpo trattiene la memoria. Memoria come tatuaggio sulla pelle, tatuaggio che ha discriminato, e memoria che scivola via: Il vecchio Ciclope filosofo sta mingendo la memoria dall’occhio. L’epica diventa dramma e poi riflessione filosofica: frammenti di corpi e memorie di una dispersione malinconica a cercare l’uno.
Tanti i ferimenti che riferiscono. Poi ci sono passaggi che contengono la poesia abile a ricreare un frammento di realtà ex novo: Pallide biglie d’aria minerale vanno a morire man mano che risalgono la sommità del vetro, per poi scomparire e ricominciare la loro corsa dal fondo del contenitore, come nel gioco idraulico inesauribile di una fontana cinese.
Hypnerotomachia Ulixis è un romanzo, corredato dall’affascinante prefazione di Anna Maria Curci, più simile a un percorso di Moebius: non si esce dal pensiero e dal linguaggio e l’ultimo passaggio, il fine e la fine, non sono una felice risposta, né un concludere lieto, non si esce che con l’ulteriore dubbio, l’indefinitiva domanda. E ogni domanda è sempre una richiesta di riconoscimento: è atto d’amore.
…e cinque domande:
Filosofia e sogno: che rapporto intrattengono?
All’interno del mio Hypnerotomachia Ulixis, il richiamo al sogno presente nel titolo non è mai sciolto dal richiamo all’eros e al dibattimento interiore, pertanto ricopre la funzione di far emergere senza mezze misure la dimensione psicanalitica del pulsionale; esiste quindi un forte riferimento freudiano e, più specificamente, junghiano, nel senso di archetipico. Tuttavia il lettore in più punti potrà anche dubitare di sognare o di esser desto, perché la costruzione narratologica, patentemente surrealista nei modi e nei contenuti, è dotata di un apparato di realismo grandguignolesco abbastanza fermo nel suo proposito carnale e materico, come fosse un incubo molto vivido da cui non si riesce a fuggire. Del resto Schopenhauer scriveva: “La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro. La lettura continuata si chiama vita reale. Ma quando l’ora abituale della lettura (il giorno) viene a finire e giunge il tempo del riposo allora spesso seguitiamo ancora, fiaccamente senza ordine e connessione, a sfogliare qua e là qualche pagina: spesso è una pagina già letta, spesso un’altra ancora sconosciuta, ma sempre dello stesso libro” (Die Welt, I, 5). Filosoficamente, per come lo uso io nei miei libri, il sogno non è che un grado secondo di espansione dell’inconscio verso il verumfactum della pulsione, che all’interno del mio romanzo, è precipuamente quella narcisistica.
La memoria ha un ruolo particolare, abbiamo letto, ma come si deve scordare per trasformare i riferimenti accademici alla cultura in ferimenti salvifici alla lingua?
Innanzitutto, ti rispondo dicendo che mi sono proprio divertita a capovolgere i personaggi tradizionali del mito odissiaco nel loro perfetto contrario speculare: il Ciclope del Giallo, che minge memoria fuori dal suo corpo come fosse orina e scoria e tramite quest’operazione depura e riduce al grado zero il concetto di Storia, è esattamente il contrario del Ciclope omerico, bestiale e ottuso, che crede nel nome Nessuno e lo ripete come un mantra dopo l’offesa ricevuta. Per quanto riguarda ciò che mi hai chiesto, il linguaggio ha un doppio mandato costituzionale: da una parte riconduce a comunicazione qualsiasi messaggio e, secondo la teoria tradizionale, si fa così specchio del mondo e immagine della realtà; dall’altra parte, esso non riproduce soltanto, ma denota e connota. È il Wittgenstein dei giochi linguistici quello che emerge nella riflessione sulla perdita della funzionalità uno-a-uno del linguaggio che pervade l’ultimo capitolo, funzionalità data per buona dai logici classici in base alla quale a ogni parola corrisponderebbe (falsamente) un concetto; è la riconsiderazione del linguaggio come fatto non logico, bensì estetico e quindi, irriducibilmente, psicologico, creativo e sempre in fieri, ma proprio per questo, perpetuamente a rischio di insensatezza ciò che mi premeva sottolineare come messaggio conclusivo del libro: a una parola non corrisponde esattamente un concetto, ma un senso sempre provvisorio, di volta in volta da definire a seconda dei parlanti e dei contesti d’uso. Questo senso, alle cose, alla letteratura, alla vita, lo deve dare il lettore, ovvero l’interpretans.
In fondo il linguaggio, come nel gioco idraulico inesauribile di una fontana cinese, parla di sé stesso, a sé stesso, come il pensiero: che se ne può trarre, a livello artistico nell’ambito della scrittura del romanzo?
Nel senso in cui poco fa parlavo di linguaggio dotato di provvisorietà creativo-espansiva dei sensi e dei significati, per rendere il linguaggio cosa viva basta pensarlo in termini poietici-poetici, e non assiomaticamente come dato cristallizzato; da qui si spiega anche lo stile neobarocco e neomassimalista che prediligo, l’unico che mi permette di espandere in entropia le funzioni linguistiche senza limitazioni se non quelle della com-prensione del ricevente. Nella mia concezione filosofico-letteraria, il messaggio poetico è un interpretandum in cui l’interpretans, secondo il vecchio adagio già messo in risalto da Mallarmé, non è altro che il lettore. Nel circolo ermeneutico rinnovato che si viene a creare, l’analogia è il principio fondante del mio fare scrittorio. Il circolo ermeneutico è un con-testo in cui si-fornisce-senso-al-senso solamente a patto di permanere al suo interno, giacché nessun sistema di riferimento mentale altro è comprensibile dal di fuori; tuttavia, non si tratta di una posizione asfittica: è importante che il linguaggio, così come il pensiero, mantengano sempre aperte delle porte osmotiche, si diano sempre come sistemi aperti di tipo euristico, mai come sistemi chiusi di tipo assiomatico, semplicemente definitorio. Nessuna definizione, infatti, funziona se si pretende di darla una-volta-per-tutte. Allo stesso modo, nessun romanzo finisce mai di dire ciò che ha da dire, se è euristicamente concepito, come il mio Ulisse.
in qualche asettico inferno, condannato all’eterna presenza a me stesso. Ma sono vivo davvero? L’inferno non sono gli altri, quanto la mia consapevolezza dell’altrui presenza, dunque la presenza a me stesso. Forse il narcisismo è proprio questo volersi presentare ovunque: Internet è il mare vago e atroce in cui ognuno non può smettere di esserci a sé stesso e agli altri, a meno che non abbia deciso da subito di non esserci. C’è un compromesso tra ubiquità creativa digitale e possibilità di evitare il narcisismo?
Il narcisismo è un argomento di riflessione con cui mi sto cimentando da qualche anno in seguito a vicende personali che me ne hanno fatto conoscere il lato smaccatamente patologico. Il protagonista del mio romanzo, Ulisse, in base al mio abituale gioco di rovesciamenti delle parti, da eroe dell’Intelletto si ribalta in un nomade del sé che non si conosce se non per il tramite di quotidiani autoinganni e autoindulgenze, edulcorazioni giustificative che imparerà a riconoscere ma che non avrà la forza compiuta di smascherare. Il narcisista patologico, psicanaliticamente, è un pienissimo essere vuoto, è un sé fragile che camaleonticamente assume le personalità forti di chi lo circonda per riflettersi in esse come in uno specchio. Il narcisista patologico è un buco nero che risucchia l’energia che ha intorno; la sua percezione del sé è talmente distorta che ritiene persino di essere la reale vittima, quando in realtà non è altro che il carnefice. In questo libro, come nel mio precedente Opus Metachronicum, tramite l’io narrante sfrutto l’istinto di autoidentificazione del lettore in funzione disturbante: il lettore fin dall’inizio tende a sentire come Ulisse e a identificarsi in lui, solo per scoprire piano piano che non si tratta di un eroe, né tantomeno di un personaggio da salvare, ma che le vere vittime, letteralmente, sono tutti gli altri; a cominciare da Penelope… Internet, in questo senso, è ciò che i Kraftwerk chiamano in un loro brano “the hall of mirrors”: un’agorà virtuale di narcisi che si specchiano a vicenda nel riflesso dell’altro, spalleggiandosi persino, nel delirio volontariamente equivocato del proprio diuturno branco-lamento. Il narcisismo se lo conosci lo eviti, un po’ come l’AIDS: ritengo che questo sia il messaggio scopertamente pedagogico del mio libro. Possiamo introiettare il personaggio narcisistico per indagare a fondo le nostre quotidiane idiosincrasie e i nostri orrori inconfessati. Il mio intento è portare il lettore a non avere alcuna pietà di/per sé stesso. Solo dismettendo i panni dell’autoinganno possiamo davvero migliorarci. Ma su facebook la vedo dura…
La poesia mai nominata e presente sempre nella musicalità del fraseggio, nell’accostare bianco e ombre, nel dipanare un viaggio tra le simboliche apparizioni di conoscenza: la poesia incontra la filosofia in un romanzo passeggiato nel sogno: che ci puoi dire del legame tra la filosofia e la musicalità di questo testo?
Dell’elemento poetico-poietico ho già detto: dell’elemento musicale, aggiungo solo che, in più parti del testo, introduco versi regolari a scopo ritmico all’interno di un discorso in prosa d’arte. Per quanto mi riguarda, l’estrema cura del narrato è fondamentale. L’aspetto formale è per me il Grund sostanziale del discorso artistico in quanto tale. Come ho scritto in un articolo intitolato Poetica More Geometrico Demonstrata, che racchiude in nuce il succo di tutta la mia concezione estetica, “Il principio di determinazione del poetico non è il contenuto bensì la forma. Il contenuto, o argomento, infatti, può essere qualsiasi cosa.” La forma, a sua volta, non coincide con la tecnica in sé e per sé, bensì con la determinazione sostanziale che rende un fatto d’arte in-formato, ovvero trasmissibile, comunicabile nella sua natura sentimentale, indipendentemente da cosa dice concettualmente. In questo senso, la musica è l’arte puramente estetica per eccellenza. E la poesia, formalmente, non è che musica, ritmo…