Stamattina a Napoli piove. Fumo la prima sigaretta del giorno in piedi, affacciato sulla ringhiera di una piccola terrazza che affaccia su un cortile. Inizia a fare freddo. Sulla mia destra osservo lo scorcio di una strada trafficata del Vomero. Ogni tanto qualche colpo di clacson. Giù una studentessa in ritardo s’incammina frettolosa con un enorme zaino sulle spalle. Ecco la Napoli che amo: umbratile, piovosa, un po’ risentita e frustrata. Ne sento l’intimità, in giorni così grigi, ne vedo il volto più vero – quello senza trucco, senza sorrisi forzati. Non ho mai sopportato la simpatia napoletana; e non la sopporto, la simpatia napoletana, perché è una maschera, e a me le maschere non sono mai piaciute. Ricordo tanti anni fa di aver letto un romanzo che mi sconvolse, soprattutto perché ribaltava la tradizionale oleografia partenopea – quella dei Giuseppe Marotta, per intenderci. Era intitolato “Malacqua” (1977), e lo aveva scritto uno scrittore importante, Nicola Pugliese (1944-2012); uno scrittore nascosto, isolato, che non amava dare notizie di sé, e che in “Malacqua” raccontava misteriosi crolli e neri presagi in una Napoli incessantemente piovosa, livida, plumbea. Quando è così dimessa e grigia, così nervosa e trasandata, così affaticata e infreddolita, io sento che Napoli è come una donna nuda che non sa di essere guardata da una finestra di fronte in un giorno di pioggia.
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