La crux della filosofia occidentale coincide con il dilemma tra l’essere e il divenire. Essere o non essere: questo è il problema! Da Parmenide a Eraclito di palmare evidenza ritorna l’interrogativo circa il permanere e lo scomparire della coscienza di essere nel mondo: assoggettati alla legge del divenire per Eraclito, liberi nel ritorno all’Uno per Parmenide. Che cosa è mai la filosofia se non un viaggio in se stessi, un recede in te ipsum, liberi dalla sottomissione bruta alle passioni? Qualsivoglia edificio del pensiero filosofico intende strutturare un centro di gravità permanente da cui osservare il mondo fenomenico senza rimanerne irretiti. Fa ovviamente eccezione il pensiero di Nietzsche, intriso di materia umana, troppo umana, che proclama la libertà del filosofo a prendere a martellate le convenzioni per proporsi come profeta dell’avvenire, di un tempo in cui tornerà il dionisiaco che nell’età della decadenza si è frantumato e che coincide con l’esaltazione della dimensione istintiva e creatrice. La risposta a questo eterno ritorno del problema occidentale proviene dalla cultura orientale, in cui tutto si riconduce ad unità attraverso la consapevolezza del sé superiore, complice l’impermanenza di tutte le cose.
L’illusorietà dei fenomeni e, quindi, in un certo senso la negazione della realtà esterna pongono il filosofo di Oriente in un’ottica privilegiata da cui osservare il mondo, impazzito nei mille rivoli del pensiero: da questa posizione si riconducono ad unità la mente e la materia in una tensione a comprendere, nel senso latino dell’abbracciare, tutto il proprio io e quello del mondo. Com-prendere e com-patire le ragioni del nostro essere, sforzandosi di ragionare non sui fenomeni ma sull’essenza delle cose: questa è la strada che conduce all’illuminazione, perché nel trascendere il senso errato del Sé, sorge la luce.
E’ da poco uscito per Ubaldini editore un interassente contributo per la maturazione della natura della coscienza ad opera di Rupert Spira, personalità di spicco nell’ambito della ricerca spirituale dell’Advaita Vedanda, che ha trovato il centro del suo pensiero nell’incontro col suo maestro, Francisce Lucille che lo conduce ad esplorare il suo Sé superiore, attraverso la comprensione della propria natura più intima. Punto di snodo del testo, che consiglio vivamente a chiunque, specie a chi è alla ricerca di un senso in questo mondo cadùco, in questo apparente divenire del tutto, è la certezza cui è necessario pervenire per vivere bene che non è il mondo infinito, ma lo è la mente. Spostando l’attenzione dall’esterno all’interno la dimensione materialista lentamente si sfalda e si perviene all’illuminante consapevolezza che questa è la causa dei dualismi che determinano l’infelicità dell’uomo. L’uomo infatti è sempre a rischio di perdersi e di frantumarsi nella relazione col mondo gettandosi nel samsara delle esperienze e lasciandosi irretire da queste. Solo il sapiente, come Rubert Spira, si muove al di là delle apparenze e conduce gli adepti all’antico modello della coscienza come realtà unica, base ineludibile per l’esplorazione del Sé. Penso che tutti abbiamo bisogno certo di emozionarci, ma, al contempo di distanziarci rispetto alla nostra modalità consueta di relazionarci per far emergere una coscienza indivisa. Operazione certo difficile da conseguire in questo secolo che è il figlio della crisi del Novecento, del relativismo strisciante che può degenerare in nichilismo. L’intolleranza cui quotidianamente assistiamo è certo l’effetto disastroso del desiderio, anche cosciente, di prevaricare l’altro, di imporre il proprio modo di essere, trascurando comprensione e compassione per il genere umano. La mente di Rupert Spira promuove nel lettore la focalizzazione della sua coscienza, liberandola dalle catene delle dualità. Desiderio questo di qualsiasivoglia essere pensante che voglia uscire dal pòlemos, ben individuato già da Eraclito, per arrivare ad una pacificazione degli opposti. Non tendeva già a questo il pensiero platonico attraverso la contemplazione delle Idee di cui la realtà è una proiezione illusoria? Ora tutti sappiamo che la realtà è innegabile, ma abbiamo pur bisogno di un centro di osservazione che non ci travolga, pena la frammentazione in mille rivoli e l’insorgere di patologie anche senza punto di ritorno. L’essere nel mondo è quanto di più faticoso ci tocca di vivere, una continua palestra in cui si perde qualcosa per diventare altro, talmente oneroso è il compito che i Greci ritenevano in genere che sarebbe stato meglio non essere mai venuti alla luce piuttosto che pericolare tutta la vita per poi ritornare in quel nulla dal quale proveniamo. Permeata di cultura greca, ho preso respiro in questo nutrito testo della Ubaldini e ho ritrovato il bandolo della matassa del mio vivere; il contributo al pensiero orientale di Spira declina infatti quel concetto di filosofia perenne di cui abbisogniamo, che trascenda le categorie spazio-temporali nella contemplazione di Verità/Bellezza. Così ci si apre una nuova comprensione del fenomeno uomo, nella acquisizione di un concetto fondamentale: la natura degli uomini è la medesima ad ogni latitudine e supera i condizionamenti socio-economici, culturali e religiosi. Credo che un ritorno all’Assoluto, che non sia dogmatico ma flessibile, sia auspicabile di questi tempi, in cui si assiste ad un ritorno pericoloso della violenza e dell’ intolleranza, perché è certo che il razzismo è una componente genetica del nostro tanto celebrato occidente, fenomeno quanto mai pernicioso che si potrebbe dissolvere laddove si diradassero i dualismi interni, che tanto ci espongono a sofferenza, e si aprisse uno spazio vitale comune che uscisse dal dogma per trovare conoscenza, pace e pienezza.