Avendo vissuto una vita difficile, la compianta autrice rifiutò di distruggere i suoi personaggi femminili o la brutalità che li sconvolge.
Articolo di Jordan Kisner
Tradotto da Roberta Denti The Atlantic
C’è un eremita della montagna che compare due volte nella prosa di Lucia Berlin: la prima in La Donna Che Scriveva Racconti, la raccolta di racconti del 2015, e la seconda in un appunto autobiografico estratto dal nuovo libro Welcome Home: A Memoir With Selected Photographs and Letters. La scrittrice descrive l’incontro con l’uomo avvenuto quando era ragazzina; il padre aveva fatto amicizia con l’eremita e, prima che arrivassero le grandi nevicate, era solito fargli visita portandosi appresso la figlia e trascinandosi dietro un cumulo di riviste attraverso i boschi. Mentre gli uomini parlavano tra di loro, Lucia aveva il compito di strappare le pagine delle riviste e usarle per rivestire a mo’ di carta da parati la baracca dell’eremita.
“Johnson trascorreva le lunghe e buie giornate invernali a leggere le pareti. Era importante mescolare le pagine e le riviste in modo che la pagina 20 fosse in alto sulla parete a nord e la 21 in basso sulla parete a sud … Ogni volta che leggeva una pagina, Johnson doveva inventare la storia che nasceva da essa, modificandola a volte quando, giorni dopo, trovava una pagina appiccicata su un’altra parete. Quando aveva esaurito tutto il potenziale della baracca, Johnson la ritappezzava con altre pagine in un ordine similmente a casaccio.”
In Welcome Home, Lucia Berlin lascia intendere che questa sia stata la sua prima lezione di letteratura. Forse come storia è un tantino troppo poetica ma i temi – isolamento, natura selvaggia, narrativa scomposta da risistemare – si ritrovano in tutta la sua opera. Undici anni fa dopo la morte avvenuta nel 2004, i suoi racconti suscitarono grande interesse con la pubblicazione postuma di La Donna Che Scriveva Racconti, al quale lo scorso autunno si sono uniti Welcome Home e un’altra raccolta di storie intitolata Sera In Paradiso. Queste due aggiunte rivelano quanto l’immaginazione letteraria della Berlin sia stata portentosamente forgiata dal doppio credo insito nel suo incontro con la carta da parati dell’eremita: ossia che le storie possono tenerci compagnia – e mantenerci sani – durante i periodi di profonda solitudine e che le storie migliorano quando sono fratturate e aperte agli interventi.
La comparsa di questa scena sia nel racconto sia nel memoir rimarca inoltre la coincidenza, oggi lampante, tra la narrativa e la vita straordinaria e complicata dell’autrice. Lucia Berlin nacque nel 1936 in Alaska e il padre, che di mestiere faceva l’ingegnere minerario, viaggiava ogni paio d’anni con la famiglia attraverso l’Ovest americano fino a sistemarsi in Cile quando Lucia era un’adolescente. La madre soffriva di una depressione debilitante ed era affetta da alcolismo, mentre il nonno materno, con il quale la famiglia visse per qualche anno e che compare nei racconti, beveva e abusava sessualmente di Lucia.
La sua vita adulta, per quanto se ne sappia, fu itinerante quanto la sua infanzia. Lucia ebbe tre mariti e quattro figli prima dei trent’anni e girovagò tra il New Mexico, New York e il Messico, ritirandosi talvolta per mesi a vivere su una spiaggia di Jalisco in una capanna con il tetto ricoperto di paglia e il pavimento di sabbia bianca o a guidare un furgoncino della Volkswagen da Oaxaca fino al Guatemala, con i figli addormentati sui sedili posteriori. Dopo aver divorziato da un altro musicista jazz, Lucia non si sposò mai più e per mantenere i figli lavorò come infermiera, donna delle pulizie, insegnante, scrivendo nei ritagli di tempo tra attacchi dovuti al devastante abuso di alcol.
Fino alla pubblicazione di Welcome Home, sarebbe stato presuntuoso ipotizzare che i racconti della Berlin fossero in gran parte autobiografici o che i personaggi che le assomigliavano fossero la sua cifra ma quasi tutto nei suoi racconti riecheggia in Welcome Home, talvolta al punto da risultare una diretta ripetizione. Ecco un estratto che compare nel racconto “Sometimes in Summer”: “Andare in bagno mi terrorizzava, allora zio John m’insegnò a iniziare dalla porta d’ingresso, sussurrandomi a ripetizione ‘Dio si prenderà cura di me. Dio si prenderà cura di me,’ e a correre come una dannata.” Ecco il pezzo da Welcome Home:
“Di sera avevo paura a camminare lungo il buio corridoio per raggiungere il bagno, temevo fantasmi invisibili, il nonno e mia madre che spesso sbucavano dalle loro porte come dementi squinternati. John mi disse di pregare ‘Dio si prenderà cura di me. Dio si prenderà cura di me,’ e poi di correre come una dannata. Anche lui rientrava ubriaco a casa di notte ma la sua era una sbornia dolce e commovente.”
Ora potremmo definire la prosa della Berlin meta-fiction o auto-fiction, ma s’intuisce che negli anni Sessanta la Berlin scriveva senza il privilegio dell’ironia formale. I suoi racconti contengono osservazioni e preoccupazioni relative a esperienze illecite: come vestivano e parlavano gli spacciatori d’eroina a Juárez negli anni Sessanta; come una donna di quell’epoca poteva cambiare mariti con la stessa scioltezza con la quale cambiava tassì; a cosa pensava una donna delle pulizie quando rimuoveva il sangue dalla parete di una camera da letto dopo un omicidio; che cosa giaceva dietro la precaria superbia di una ragazzina di 14 anni alla quale è stato chiesto di partecipare a feste piene di uomini di potere; come ci si sentiva a provare “una diabolica urgenza di … incasinare tutto.” Sono tematiche pericolose per le donne, persino oggi. Non è un caso che molti critici l’abbiano paragonata principalmente a scrittori, non scrittrici, dell’epoca (Hemingway, Raymond Carver), sebbene questi paragoni di rado rendano giustizia all’umorismo o allo stile eccentrico e sontuoso della sua prosa.
Welcome Home esprime anche una sensazione di gioia legata alla sua personalità, che è espressa con la medesima urgenza in tutta la sua opera al pari della solitudine e della disperazione. La sua scrittura ama il mondo e indugia sui dettagli legati al tatto e all’olfatto. La scrittrice dedica paragrafi a raccontare come le case della sua infanzia riempissero le sue orecchie: “Il vivace suono della macchinetta da caffè, il guizzo di un fiammifero sull’unghia del pollice di mia madre, il rumore dello Zippo di mio padre.” Scrivendo della sua famiglia, la scrittrice annota: “[Il nonno] puzzava di Camel, Bay rum e Jack Daniel’s. Mia madre sapeva di Camel, Tabu e Jack Daniel’s. Lo zio John di sigarette Delicado e di tequila. Mamie aveva tanti odori, tutti soffocanti … la sua stessa pelle era bianca e umida, con la medesima consistenza e temperatura del pane etiope.”
Questa precisione è caratteristica della Berlin, le cui descrizioni sono di solito sia peculiari sia divertenti. Di una futura mamma, dice: “Marjorie fece tutto rosa. Una scelta alquanto errata perché alla fine nacque Steven.” Della casa che condivise con il primo marito, uno scultore, annota: “I nostri piatti erano neri, le nostre posate in acciaio inossidabile possedevano un audace stile moderno. Le forchette avevano solo due denti, quindi mangiare spaghetti era un’impresa.”
Sera In Paradiso rivisita luoghi, personaggi e fili narrativi familiari. Questa seconda raccolta è così conseguente a La Donna Che Scriveva Racconti nel tono e nella trama che insieme i due libri si leggono come fossero quattro o cinque novelle che sono state smontate, scompigliate e suddivise in due volumi, come un puzzle da risolvere. Sera In Paradiso è un libro ancor più frammentato del precedente: numerosi racconti – tra cui la storia che dà il titolo al libro – potrebbero essere più veritieramente descritti come abbozzi di storie, o come scene magistralmente riprese da un’opera più ampia e coerente che non esiste. Altri racconti possiedono l’architettura fluttuante e intima di storie a sé stanti.
Quasi ogni racconto contiene una donna che ricorda la descrizione e l’autobiografia della Berlin ma i dettagli cambiano in maniera fortuita, quasi birichina. I personaggi riconoscibili cambiano nome a mo’ di alibi. Da un racconto all’altro, il libro devia da un’elegante scuola privata in Cile negli anni Quaranta a Puerto Vallarta, da un appartamento angusto a Oakland negli anni Settanta a una cella per detenuti intossicati passando per il Louvre. L’effetto dapprima è quello di un autore che entra in una dozzina di vite diverse; a poco a poco ci si rende conto che la sua è una vita spezzata in molteplici frammenti, esaminata frammento per frammento.
Una costante tra i racconti è l’alienazione del personaggio che ricorda la Berlin. E’ tipicamente isolata dalle amicizie, in conflitto con la persona che ama, emarginata dalla società perbene o geograficamente persa in qualche luogo. Ovunque vada, la scrittura non la perde d’occhio. In “La Mia Vita E’ Un Libro Aperto”, un vicino dall’altro lato della strada la sbircia con riprovazione dalla finestra mentre scrive, si occupa da sola dei quattro figli, studia fino a tarda notte e si addormenta con la testa sulla macchina da scrivere, fino a quando inizia una relazione con un diciannovenne. “Insomma tutti noi avremmo compreso se si fosse messa con un uomo perbene ma questa roba è da pervertiti,” dice con stizza il narratore. In “Lead Street, Albuquerque,” un altro narratore dice: “Sembrava che nessuno le avesse mai detto o mostrato cosa significhi crescere, fare parte di una famiglia o essere una moglie. Un motivo per il quale era così tranquilla era che osservava per capire come tutto andasse fatto.”
Questi racconti possiedono l’austerità di un inflessibile esercizio mentale – con la Berlin che si analizza attraverso il benevolo, talvolta malevolo, sguardo altrui – ma offrono anche conforto. Il personaggio si sentirà anche solo ma la storia respinge la sua paura: qualcuno la sta osservando.
Molto spesso la narrazione esprime ciò che la sua protagonista isolata non riesce a fare. Questo punto è particolarmente evidente in “Andado” che rappresenta il racconto più lungo e autorevole. Laura, una quattordicenne iscritta in una costosa scuola privata in Cile, è mandata dal padre a trascorrere un fine settimana a casa di un suo superiore, Don Andrés, proprietario di miniere e uno degli uomini più ricchi del paese. Laura è abituata a sostituire la madre, rintanata in una camera da letto con una bottiglia di gin, e sa come vestirsi in modo da sembrare “una ragazza di almeno 21 anni, carina e un po’ cheap.” Don Andrés – che scopriamo essere più vecchio del padre di Laura – sviluppa un interesse nei confronti della ragazzina e a poco a poco la seduce. Laura è una bambina; non è mai stata baciata: “Dove sono finiti i nasi?” Ma Laura lo sa, d’istinto: “Non c’era nessuno con il quale potesse parlare.”
La storia procede fino al momento in cui Don Andrés e Laura rimangono bloccati durante una violenta tempesta quando si ribaltano con la carrozza trainata dai cavalli (la storia riporta l’insolente sottotitolo di “Una Relazione Gotica”) e fanno l’amore. Dopo il rapporto carnale, Don Andrés non la guarda nemmeno. “Cosa mi succederà?” si domanda Laura. Quando fa pressioni su di lui, Don Andrés risponde: “Non sono arrabbiato con te, mi vida. Ti ho rovinato.” La narrazione, che fino a questo punto è stata raccontata in terza persona, si allontana da questa forma narrativa per porre la domanda che Laura non farà mai a voce alta: “Rovinata? Sono rovinata? Per un momento così breve ed equivoco? La gente se ne accorgerà, guardandomi?”
Dopo aver letto questi due libri, ho pensato molto alla questione della donna rovinata e di come l’artista donna trascorra la carriera a esaminare la propria degradazione perché la paura che tutti vedano la sua vergogna è minore rispetto alla paura che nessuno la veda del tutto. La Berlin sembra essere una di queste donne ed è una maestra nel catturare le donne in stati di disintegrazione: donne danneggiate, a livello fisico o emotivo, dagli uomini; donne immerse in uno scandalo o disprezzate dalla società; donne che sono autodistruttive di proposito. La sua opera contiene, tra molte altre cose, una profonda documentazione di come la vergogna, il trauma o la capacità di resistere in barba alle difficoltà apparissero cinquant’anni fa su una particolare donna, o su un genere particolare, di donna.
E’ importante sapere da dove provenisse il suo materiale? Prendere in considerazione la questione rappresenta una mancanza di rispetto nei confronti della scrittrice? O è uno sbaglio considerare quest’opera senza indagare la sua apparente funzione di testimone dei frammenti di una vita vera che non potrebbero essere riconosciuti in nessun’altra maniera? In una recente intervista, la scrittrice Elif Batuman ha descritto come abbia rivalutato il suo desiderio di nascondersi dietro il discreto schermo della narrazione, realizzando di come fosse “fondato su un’idea di decoro e privacy che comprendeva mascherare molti dei modi in cui le donne tradizionalmente incassano il colpo” a causa della brutalità del mondo. Scegliere di rappresentare quella brutalità con le sue conseguenze come narrativa di fantasia piuttosto di raccontarla come fatti di un’esperienza personale può rinsaldare l’idea presunta che “le donne debbano semplicemente mandarla giù … e sparire con grazia.” Gran parte del mondo descritto dalla Berlin è un’esperienza sconvolgente per le donne, ciononostante i suoi racconti – ancora più dei frammenti presenti in Welcome Home – rifiutano allegramente di distruggere sia le donne sia la brutalità che le sconvolge.
Al contrario, la scrittrice le fa ancora più a pezzi e le ricompone di nuovo, producendo chimere rovinate e raggianti convocate da un angolo poco battuto dell’America del ventesimo secolo. I racconti dovrebbero sembrare pezzi d’epoca ma sono insolitamente familiari. La donna che rifiuta di mandare giù e scomparire vive un momento di grande ribalta, al pari della dipendenza, dello scandalo, del sospetto che siamo soli in un mondo affascinante teso alla nostra distruzione. La scrittura della Berlin possiede il vantaggio di avvicinarsi a questi temi da un’epoca meno estenuante di quella attuale e il suo è uno sguardo abbastanza tenero e preciso da rendere i suoi personaggi persone e non archetipi o sermoni sotto false spoglie. Si domandano dove siano andati i nasi. Le loro voci sembrano le nostre.