Il mito della frontiera nucleo fondante ed originalmente autoctono della cultura tradizionale statunitense indica idealmente quel limite oltre il quale esiste la «barbarie della natura e dei popoli» (wilderness) in opposizione a quel “di qua” rappresentato dalla civiltà euroamericana. Nella storiografia statunitense la frontiera assunse diversi aspetti a seconda delle interpretazioni che ne furono date nel corso del Novecento. Acquisita la sua dignità storica grazie al lavoro dello storico, che ogni americanista ha letto e studiato, F.J. Turner, La frontiera nella storia americana, il concetto di frontiera fu rivisitato ripetutamente dagli storici che ne modificarono volta per volta l’aspetto. La frontiera rimase per decenni nell’immaginario di molti storici degli Stati Uniti come il potenziale di espansione e di risorse che determinava la formazione di un’identità americana. Fu concepita da Turner come un insieme di ostacoli il cui progressivo superamento contribuiva a formare il carattere della giovane nazione statunitense. Anche in parte della letteratura americana fu interpretato come la “visione di una terra”. Walt Whitman interrogava così i poeti d’America: L’opera vostra sa resistere al paragone dei campi aperti, sulla riva del mare? Emerge in primo piano la figura della frontiera. Essa ha una storia all’interno del mito americano. In origine è da intendersi come lo spazio dove è possibile rinascere immergendosi in uno stato di innocenza primordiale e quasi adamitica. Poi prende forma una visione della frontiera come luogo irto di pericoli, perché confine tra civiltà e barbarie, ma ricco di promesse e possibilità. L’indispensabile punto di riferimento dell’identità in divenire di una giovane America che si rappresenta come una comunità che potrà insegnare e indicare il cammino della libertà al resto del globo. Anche nell’era dell’industrializzazione, dell’ automazione e della motorizzazione Jack Kerouac potrà infine partire con lo stesso spirito per il suo viaggio on the road all’interno di una forma diversa di wilderness. Il mito della frontiere in arte assume un carattere intimistico basti pensare alle opere di Thomas Cole e alla nascita del paesaggio americano. Cole nasce in Inghilterra (come il grande scrittore politico famosissimo in tutto il mondo, Thomas Paine) ma emigra nel 1818 con la famiglia negli Stati Uniti, dove studia pittura all’Accademia di Filadelfia per poi trasferirsi nel 1825 a New York. E qui comincia veramente la sua avventura artistica, a partire da un viaggio di esplorazione a Nord nella valle dell’Hudson e nei selvaggi paesaggi. I suoi paesaggi dipinti con minuziosa attenzione per gli elementi pittoreschi ma impregnati da una romantica tensione estetica verso un celestiale naturale, e da una esaltazione sia razionale che religiosa della incontaminata bellezza della wilderness, diventano in qualche modo gli equivalenti figurativi della nuova visione idealistica della natura di scrittori filosofi come Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson i cui libri di successo saranno letti dai pionieri con spirito di profonda libertà e negli anni 70 del Novecento saranno riletti e attualizzati dai giovani della controcultura che combatteranno contro la consuetudine del “tecnicismo liberale” americano ricordando e prefigurando proprio un ritorno contemporaneo e attualizzato di quel miraggio tutto americano denominato “mitodella frontiera”.