Ho incontrato Franca Nuti nell’aprile del 1997 – non ho mai dimenticato il suo gesto, l’eleganza – quando con Vittorio Gassman iniziai a realizzare i cd sulla poesia dell’800 e del 900. L’anno precedente avevo letto dun fiato l’atto unico di Patrizia Valduga “Corsia degli incurabili” (dedicato «a Franca Nuti, l’eccelsa») dove c’è un testo che a volte mi dico a mente a memoria (forse saltando qualche verso invecchiando, e spesso saltando la mia fermata del metrò) come fosse un talismano.
Mi chiedo se, anzi lo so bene, senza poesia sarei impazzito. Non dico per dire. Il testo di Valduga è “semplice” fuori, come i testi dei suoi maestri, i più grandi del novecento, Giovanni Pascoli e Andrea Zanzotto, ma complessa armonia e labirintico numero dentro, ne metto qui un lacerto per tutti e per nessuno, al solito:
Amore dove sei? sto cosí male…
Quest’alba che non viene è un tuo segnale?
Del cuore non so piú il chi e il quale
e del resto infinito, abituale…
Alcuni versi dal mio memoriale.
Amore senza amore, criminale,
saluta pure tu l’alba immortale!
Io non posso farti bene del male
cosí, senza il magnetismo visuale,
cosí, da questa dimora infernale
dove il malato è detto «terminale»…
La loro lingua, sempre piú triviale!
Dicevo, amore mio, sto cosí male…
Era il male d’amore, il piú banale.
A me il male si getta con le pale,
mi seppellisce, dicevo, animale…
adesso basta con le rime in ale!
Incurante di me, lassú, risale…
Ancora? basta! ho detto … la mia aurora,
la bella aurora riposata, eguale.
Non stavo mica tanto male, allora…
Ma, a forza di ripeterlo, si sa,
si finisce col crederlo, ed è fatta.
È il principio della pubblicità.
Perché non è la vera infermità,
perché è malizia e arroganza matta,
pietà… pietà… che sete di pietà
in un povero corpo che si sfa…
[…]
(Afro, La scheggia, 1956)