Mezzo secolo fa, i repubblicani erano una presenza rispettabile ma un po’ noiosa sulla scena politica. Diffidenti degli eccessi del governo, avevano comunque avuto una posizione conciliante nei confronti di Franklin D. Roosevelt. Il loro ideale era Dwight D. Eisenhower, che nel 1952 divenne il primo Repubblicano in 24 anni ad essere eletto presidente. Il suo avversario principale per la nomina, il senatore Robert Taft dell’Ohio, si era opposto al New Deal ed era un isolazionista convinto che bisognasse evitare di sostenere la Gran Bretagna nei primi anni della seconda guerra mondiale. Eisenhower rappresentava un ceppo più pragmatico del conservatorismo, internazionalista quando si trattava di politica estera e disposto ad occuparsi soprattutto dei problemi interni. Definiva tutto questo “repubblicanesimo moderno”. Con la sua rielezione nel 1956, tutto questo sembrava il futuro, almeno per quanto riguardava i repubblicani. Non lo era. È quello che racconta Geoffrey Kabaservice nel suo “Rule and Ruin” dove ricostruisce la storia successiva del repubblicanesimo moderno, delle sue sconfitte ma anche della sua resistenza.
(Timothy Noah, The New York Times, 8 gennaio 2012)