La prima volta che sono andato al cinema fu a Padova, era il 1965.
Avevo poco più di tre anni e mamma e papà mi portarono a vedere Mary Poppins di Walt Disney.
Da allora ci sarei tornato molte volte.
Penso che non mi stancherò mai di andare al cinema.
Dicono che il primo lungometraggio sia stato Nascita di una Nazione dell’americano David Griffith, uscito l’8 febbraio del 1915.
Sono passati più di cent’anni, sono usciti migliaia di film e si continua ad andare al cinema.
Ho voluto ricordare 260 titoli italiani e stranieri in ordine cronologico dedicando, al termine di ogni decade, un approfondimento a registi, attori o a particolari “filoni”.
Ovviamente sono scelte soggettive che non metteranno d’accordo tutti, ma l’importante è continuare ad andare al cinema.
Perché nessuno schermo televisivo saprà mai restituire la magia di un grande schermo che si illumina nel buio di una sala gremita di spettatori vocianti che improvvisamente si zittiscono, come davanti a un’apparizione divina.
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La decade della rinascita internazionale del cinema italiano di Sorrentino e Guadagnino si chiude con gli Oscar a tre capolavori.
I segreti di Osage County di John Wells (2013)
Quattro sorelle si ritrovano nella afosa Oklaoma al capezzale della madre malata di cancro per cercare il padre che si scopre essersi suicidato nel lago. Tra di loro accade di tutto ma se Meryl Streep come sempre ruba la scena durante il memorabile pranzo post funerale, è la straordinaria Julia Roberts, nel ruolo della figlia più intelligente, a conquistare la palma con la sua migliore interpretazione di sempre. Notevole Margo Martindale e molto bravi anche i maschietti, tra i quali un dimesso Ewan McGregor, il solito carismatico Sam Shepard e il fantastico Chris Cooper.
Era già geniale in partenza la sola idea di un intero film costruito sui dialoghi al cellulare di un tizio che guida tutto solo di notte, ma poi si rivelò di grande livello anche la successiva realizzazione e semplicemente sensazionale la prova del protagonista Tom Hardy, giustamente candidato all’Oscar, unitamente a regia, montaggio e sceneggiatura.
The Judge di David Dobkin (2014)
Tipico legal thriller con il figlio rampante avvocato che tornato al paesello d’origine nell’Indiana per il funerale della madre, si trova a dover difendere il padre ex giudice, con cui ha sempre avuto pessimi rapporti. La marcia in più di questo film è data dallo spettacolare confronto tra i due Robert, Downey Jr. e Duvall, in una vera e propria gara di bravura. Notevoli anche Vincent D’Onofrio, Billy Bob Thornton e David Krumholtz, ma tutto l’insieme funziona a dovere per chi ama il genere.
Boyhood di Richard Linklater (2014)
Interessantissimo esperimento di un film girato per 12 anni dal 2002 al 2013 per mostrare la crescita fino al diploma del bambino Mason interpretato dallo stesso attore Ellar Coltrane, come i suoi genitori divorziati, Ethan Hawke e Patricia Arquette, che vinse l’Oscar come attrice non protagonista. Bellissimo!
Non essere cattivo di Claudio Caligari (2015)
Terzo e ultimo film, uscito post mortem grazie all’impegno di Valerio Mastandrea, del regista Claudio Caligari, è stato tra i primi ad aprire il filone successivamente un po’ inflazionato della delinquenza sul degradato litorale laziale. Superba prova dei due protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi, da quel momento giustamente lanciati in un’inarrestabile carriera, e riconoscimenti ogni dove per uno dei più bei film del non ancora esaurito decennio.
Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (2015)
Traendo spunto dalla nota saga a cartoni di Gō Nagaj, il debuttante Mainetti confeziona un piccolo capolavoro di rara originalità in cui spiccano le prove eccellenti del protagonista Claudio Santamaria, notevolmente ingrassato per l’occasione, dell’ex gieffina Ilenia Pastorelli, premiata con il David, del sempre più bravo Luca Marinelli e di Antonia Truppo, in versione capo camorra al femminile.
Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese (2016)
Interessante e angosciante esperimento sugli effetti perversi del modo dominato dai cellulari, tutto giocato all’interno di un appartamento durante una cena tra coppie di amici con un finale ambiguo. Cast superlativo dove ognuno fa la sua parte al meglio in stile quasi teatrale, ma più di tutti meritano la lode Anna Foglietta e Giuseppe Battiston.
La Comune di Thomas Vinterberg (2016)
Il regista di Festen e Il sospetto ci regala una bellissima ricostruzione di come si viveva negli anni ’70 a Copenaghen. Oggi sembra che in Danimarca fossero “troppo avanti” rispetto a noi, ma invece siamo “noi” che siamo tornati indietro, perché in quegli anni le Comuni le avevamo anche in Italia e anche la libertà di fare sesso con chi ci pareva e magari anche davanti all’ex partner. Poi noi siamo diventati dei bacchettoni e loro invece no, ma questo non è un problema del regista che dalla Danimarca non se n’è mai andato. Perfetto anche fisicamente tutto il cast, anche se un voto speciale va alla fantastica Trine Dyrholm (sosia di Paola Quattrini), che giustamente i soliti saccenti alla mostra veneziana mi decantavano come somma, mentre io mi annoiavo in Sala Grande con quell’immonda boiata di Love Is All You Need, attratto dal cast. Merita una citazione speciale anche Ulrich Thomsen, molto azzeccata la figura della figlia e ottimo il finale che ovviamente non svelo.
Manchester by the Sea di Kenneth Lonergan (2016)
Straordinaria prova di Casey Affleck, fratello minore del più noto Ben, in una pellicola che affronta in modo intenso e coinvolgente lo sviluppo emotivo del difficile rapporto tra l’introverso zio Lee, segnato anni prima da una immensa tragedia, e il nipote adolescente Patrick, del quale, il fratello Joe, prima di morire, lo ha nominato tutore. Molto bravo anche il giovane Lucas Hedges e davvero splendida la sceneggiatura nei momenti in cui il protagonista si rincontra con l’ex moglie a sua volta interpretata da una bravissima Michelle Ingrid Williams. Meritati Oscar sia ad Affleck che alla sceneggiatura originale.
Quasi nemici di Yvan Attal (2017)
Sottotitolo del film, L’importante è avere ragione, frase chiave che il professor Pierre Mazard insegna sin dalle prime battute alla sua giovane allieva. Ambientato alla Sorbona di Parigi, il film affronta il tema abusato dell’integrazione con un taglio tutto speciale e che si fa apprezzare anche grazie al carisma dei due protagonisti, il primo ampiamente noto, trattandosi del celebre Daniel Auteil, mentre la seconda è la quasi debuttante Camélia Jordana che ha un volto che, come si dice in gergo, letteralmente spacca. Bello anche il finale.
Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino (2017)
Chiamiamolo con il suo nome: capolavoro! Che sta nella mano perfetta con cui il regista ha saputo guidare l’incredibile poesia, in alcuni momenti quasi magica, che il giovane attore protagonista, il mirabile Timothée Chalamet, trasmette dalla prima all’ultima sequenza, inserendolo in una serie di situazioni di contorno, filmate con una maestria da lasciare stupefatti e senza trascurare il benché minimo dettaglio. Valga per tutti l’accompagnamento musicale della scena del rapporto sessuale con la fidanzatina nel pomeriggio che prelude al concordato primo appuntamento notturno con Oliver. In una polverosa soffitta Elio, in preda a una eccitazione forzata e sopra le righe nel vano tentativo di bilanciare la goffaggine del momento con la trepidazione per l’attesa della serata, decide di accendere una radiolina semi rottamata prima di buttarsi sul materasso dove già lo aspetta lei. A quel punto parte, tra le tante possibili, la vocina in falsetto di F. R. David che canta la zuccherosa e molto anni Ottanta Words (Don’t Come Easy). Non poteva esserci musica più adatta per quel momento, assolutamente perfetta per quella che peraltro è la chiave di volta del protagonista, della storia e del film, che da quell’istante si dividerà definitivamente tra un prima e un dopo. Bello che per una volta ci abbiano risparmiato la solita Toscana da cartolina, ambientando il tutto nella ben più suggestiva e nebbiosa pianura della bassa Lombardia, e fantastica la scelta di una Bergamo alta notturna per il picco più alto di una reciproca attrazione votata sin dall’inizio a una necessaria quanto inevitabile provvisorietà.
Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni (2017)
Bellissimo apologo di un’improbabile quanto commovente amicizia tra un vecchio e colto signore agli ultimi giorni di vita, il sorprendente Giuliano Montaldo, premiato con il David, e un borgataro coatto e ribelle e il suo branco di amici, apparentemente uno peggio dell’altro, ma che alla fine riveleranno un grande cuore. Debutto al fulmicotone del ventenne Andrea Carpenzano.
Dogman di Matteo Garrone (2018)
Il più bel film del 2018. Capolavoro assoluto liberamente ispirato a un terribile fatto di cronaca avvenuto parecchi anni fa al quartiere romano della Magliana e che il regista trasferisce sul litorale. Non c’è in tutto il film una sequenza che è una che non lasci sbigottiti per l’assoluta maestria del regista qui al suo vertice di maturità. Selezionato per gli Oscar 2019, il film di Garrone ha già ottenuto un meritatissimo premio al Festival di Cannes per lo straordinario debutto del calabrese Marcello Fonte.
Il film che ha vinto meritatamente il Leone d’oro alla 75a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il titolo si riferisce al quartiere Colonia Roma di Città del Messico dove si svolge la storia autobiografica della famiglia del regista. Girato interamente in bianco e nero, si capisce che è un grande film già dalla sequenza iniziale della sigla che ritrae chiazze di acqua che si allargano su un pavimento esterno alla casa, e il cui significato si comprenderà solo più avanti.
La favorita di Yorgos Lanthimos (2018)
Ottenere 10 candidature all’Oscar nell’anno domini 2019 con un film in costume e che neppure narra di una storia realmente accaduta non è da tutti, però il grande regista greco ci è riuscito. In questo straordinario mosaico di intrighi di corte molto del merito del successo che ha riportato il film lo si deve alle tre spettacolari attrici, Olivia Colman, Emma Stone e Rachel Weisz, che fanno a gara a chi è la più brava delle tre, al punto che alla fine non si sa chi scegliere.
Green Book di Peter Farrelly (2018)
Bellissimo road movie anni ’60 ispirato alla storia vera di Tony Lip, pseudonimo di Frank Anthony Vallelonga, interpretato nel film da uno strepitoso Viggo Mortensen. Non gli è da meno la performance dell’altro protagonista Mahershala Ali già apprezzato ne Il diritto di contare di Theodore Melfi, e molto azzeccati i dialoghi tra i due sulle note del blues e del rock che imperava in quegli anni. Finale strappalacrime, come ogni tanto è giusto che sia e meritato Oscar come miglior film nel 2019.
Davide Steccanella
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