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La strage dei congiuntivi. Intervista incrociata a Massimo Roscia e Davide Zilli

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11081157_698879800224034_1123192568976726851_nQuando un noir è condito di umorismo e a servirlo, con eleganza, ingegno e tanta perizia, è un critico gastronomico, innamorato della lingua italiana e pronto a difenderla, architettando un disegno criminoso all’insegna della «mattanza linguistica», l’esito sarà un romanzo surreale e prelibato, tutto da gustare, come La strage dei congiuntivi (Exòrma Edizioni, collana Narrativa, pp. 324, euro 15,50), di Massimo Roscia.
Una guerra spietata contro i “sò, stò, pò”, i “qual’è”, i “pultroppo, propio e senpre”, contro l’estinzione della lettera h nel verbo avere, contro il piuttosto, usato impropriamente con valore disgiuntivo, e la punteggiatura (quando c’è) imprecisa.
E poi c’è il bistrattato congiuntivo, ignorato e talvolta storpiato, che dà il titolo (al plurale) al libro. Il romanzo è puntellato di citazioni classiche, con numerose note a piè di pagina, e rivela una predilezione dell’autore per l’iperbole. Il rischio sembrerebbe quello di imbattersi in un esercizio di erudizione, ma a emergere, a fine lettura, è un inno alla lingua italiana, una lotta all’appiattimento semantico, un’esortazione al ripristino dei troncamenti, spesso confusi con le elisioni, un invito all’utilizzo di parole italiane, troppo spesso sostituite da anglicismi modaioli, come Jobs Act (piano per il lavoro), spending review (revisione della spesa), customer care (assistenza clienti), skills (competenze) e si potrebbe proseguire con un lungo elenco, prevedibile e soporifero.
I protagonisti (Dionisio e i suoi sodali: un professore di letteratura, sospeso dall’insegnamento a tempo indeterminato, un analista sensoriale, un bibliotecario, un dattiloscopista della polizia) decidono di reagire in maniera spietata, colpendo fisicamente e violentemente i massacratori della lingua italiana. Scoprire chi soccomberà e chi sfuggirà alla strage, sarà compito del lettore. Perché la vendetta è un piatto che va servito – e per l’occasione gustato – freddo.

Ora: cosa spinge un fiume in piena come Massimo Roscia, dopo l’uscita del libro e varie presentazioni in giro per l’Italia, a intraprendere un nuovo tour, stavolta con Davide Zilli, docente di lettere di giorno, cantautore e pianista la sera?
Da una parte Massimo Roscia, bulimico lettore dall’intelligenza esuberante.
Dall’altra, Davide Zilli, letterato dalla personalità riservata, salvo poi diventare un mattatore quando è al pianoforte, con il suo tocco vellutato e classicheggiante. Cosa li accomuna? Il congiuntivo. Massimo Roscia lo ha trasfigurato in un romanzo, Davide Zilli ne ha composto un album: Il congiuntivo se ne va. Un’intervista incrociata, chiedendo all’uno dell’opera dell’altro.

Davide, cosa pensi dell’incipit de La strage dei congiuntivi, di Massimo Roscia? «Acetato di feniletile. Sembra essere proprio acetato di feniletile. Le palpebre esitano, timidi boccioli al sole di un’avara primavera che s’attarda a concedersi».
Molti scrittori, nell’ansia da prestazione iniziale, gigioneggiano all’inizio dei propri romanzi con ogni sorta d’artifizio per solleticare l’attenzione del lettore. Massimo fa il contrario. Ti aggredisce, non con la violenza anni Novanta degli ormai desueti scrittori cannibali, ma con la precisione di un’espressione che è quasi uno scioglilingua. L’accademico che è in me non resiste a scannerizzare. Una parola derivata, poi una composta, alla quale segue una metafora vagamente panico/dannunziana e subito quel “s’attarda” così retrò. E poi “avara-attarda”, assonanza + paronomasia. E non sarà quell’avara memore del montaliano “la luce si fa avara – amara l’anima”?

Tu, Massimo, avrai ascoltato il brano che dà il titolo al nuovo disco di Davide Zilli, Il congiuntivo se ne va. «Il congiuntivo se ne va, il mondo perde sfumature importanti, il congiuntivo se ne va con il tuo viso tra le cose distanti».
Credo che Davide abbia voluto (congiuntivo) affermare, a tempo di swing e in maniera brillante, che per diversi motivi (ignoranza, semplificazione, praticità, superficialità, pigrizia, sicumera, scarso amor proprio, perdita dei valori), sventolando l’alibi dell’evoluzione della lingua e scimmiottando maldestramente la tradizione grammaticale anglosassone, stiamo progressivamente soppiantando il congiuntivo con il più elementare, grezzo e facile da usare indicativo. Così facendo, stiamo rinunciando deliberatamente e troppo sbrigativamente alla straordinaria potenza espressiva dell’italiano. L’elegante congiuntivo non è un’inutile o aristocratica complicazione da eliminare, ma il modo verbale della possibilità, del dubbio e dell’incertezza. Oggi non pensiamo, non ci auguriamo, non crediamo; oggi noi sappiamo e basta, sappiamo tutto di tutto e così «il mondo perde sfumature importanti».

Davide, torniamo al romanzo di Massimo. Un personaggio dichiara: «Il futuro è la vera sfita. Per questo si ci deve attrezzarsi in tempo; si ci deve organizzarsi nel migliore dei moti; si ci deve attrezzarsi per garantire ai nostri figli gli strumendi più itonei».
Sì, è l’assessore Gross Donkey, che in teoria sarebbe un po’ il cattivo della storia. Cioè, è il cattivo nella testa dei vari narratori che si susseguono. La sua colpa – sua e di tante altre persone – è quella di storpiare la lingua, la cultura, di stuprarle con ogni mezzo. Il romanzo è linguisticamente bulimico. Tende a voler coprire potenzialmente non solo tutto lo scibile e tutto l’immaginabile della lingua e della cultura (e le note a margine sono – perdonami la trita espressione – una specie di romanzo nel romanzo, anzi un romanzo fuori dal romanzo, o se vuoi fungono da “coro della tragedia”), ma anche tutto lo scibile dei possibili errori linguistici. Il lettore si trova così sospeso tra due abissi: da un lato, quello dell’estrema erudizione; dall’altro, quello dell’estrema ignoranza, capaci entrambi di vomitare una colata lavica di parole, tutte mostruose – sia pure in modo diverso – rispetto alla famosa “lingua media”, che viene stiracchiata da una parte e dall’altra come a sondarne i limiti e le possibilità (Ok, mi fermo qua, mi interessava far capire che ho dato anche Semiotica).

Massimo, nell’album di Davide Zilli, leggiamo «Scattiamoci una foto per scaramanzia, nel caso che col tempo avessi un’amnesia» (da “Il secondo bacio”).
Credo che Davide abbia voluto (congiuntivo) richiamare l’attenzione sull’amnesia. Non già sulla generale perdita o sulla diminuzione notevole della memoria, ma più semplicemente sull’amnesia relativa all’uso degli apostrofi. “Un’amnesia”: la parola dopo l’articolo indeterminativo – che è femminile e inizia per vocale – è scritta correttamente con l’apostrofo (NdA: Davide è peraltro un appassionato collezionista di apostrofi; nella sala delle alabarde del suo castello cremasco ne custodisce alcuni esemplari tratti da incunaboli della scuola sublacense risalenti alla fine del XV secolo).

Davide, a proposito di amnesia, adesso una prova di memoria. «Perossido di acetone. È proprio perossido di acetone. Le palpebre, umettate dalle lacrime e protette da un paio di occhiali con lenti neutre, restano immobili e contratte, turgide e disinvolte corolle al cospetto del primo soffio di un vento autunnale».
Lo riconosco, è il capitolo 13. Sono passate due stagioni. Il cerchio inizia a chiudersi. Molti capitoli dopo l’inizio, ecco i famosi “parallelismi sintattici” che ci insegnano a individuare nel testo quando seguiamo i corsi all’università. Il romanzo ne ha a quintali. È un gioco. Uno di quei giochi vertiginosi, stratificati, labirintici, da leggere a più livelli. Complesso, ma non difficile. Anzi, più si va avanti, più è facile. Come in certe opere di Gadda, che hanno una musica tutta loro, ma quando ci sei dentro, poi ti sembra strano tutto il resto.

Massimo, avrai ascoltato come Davide Zilli, nel suo album, faccia riferimento alla punteggiatura: «Si separano o forse no, si sbaciucchiano ancora un po’, la sola regola è il punto e virgola» (da “Mezza fidanzata”).
Credo che Davide abbia voluto (congiuntivo) ribadire che la punteggiatura non è la parente povera dell’ortografia e non è negoziabile. La punteggiatura è in-di-spen-sa-bi-le per la corretta lettura e la piena comprensione di un testo; non può essere gettata a caso sulla pagina. Quanto al punto e virgola, credo che Davide abbia voluto ricordarci che lo stesso può essere usato anche per indicare uno stacco intermedio (più forte della semplice virgola e meno intenso del punto) tra due proposizioni di un periodo, e non solo per rappresentare graficamente un occhiolino più o meno ammiccante.

Davide, il titolo scelto da Massimo, dopo una serie di valutazioni, è stato La strage dei congiuntivi. Perché l’ha intitolato così, secondo te? C’è sangue? Si presenta come un giallo, o un poliziesco?
C’è anche quello. Ci sono armi proprie e improprie, commissariati, prove da occultare, delitti e testimoni. Sì, c’è del fosco, del chandleriano qua e là. Ma è più un Chandler raccontato da Borges, in un certo senso, e rivisto dal Gadda del “Pasticciaccio”. Tutto, anche i dati più sensoriali e infimi della vita, è filtrato da quella placenta immensa che è la lingua, con tutte le sue perfezioni, le sue imperfezioni e i suoi trabocchetti. «Ma sei impazzito! Fai più attenzione. Le molecole del perossido di acetone sono instabili. Basta un urto, una vibrazione, un attrito violento […] per trasformare la materia in non-materia, il tutto in niente, il c’era in non c’è più. Hai capito?», dice uno dei protagonisti. Ed è così che un minimo mutamento grammaticale diventa – letteralmente – questione di vita o di morte.

Massimo, anche Davide, come te, sembra disapprovare l’utilizzo sempre più dilagante di parole straniere. «Fino a che in televisione ti colpisce un titolone, dice che “this is the end, my friend”. E ti torna nella mente quando un losco consulente ti diceva “acquista i bond”» (da “Cosa cazzo è un bond?”).
Credo che Davide abbia voluto (congiuntivo) sottolineare i suoi sentimenti di sfiducia, sospetto e antipatia verso il marketplace e, in particolare, verso i bond e le altre obbligazioni, callable e non, il cui rating e la cui duration dipendono in misura eccessiva da una brand awareness e dall’empowerment dei competitor. Credo che la sua capacità di sopportazione sia stata duramente messa alla prova la scorsa settimana, durante un briefing per la misurazione delle skills quando, tra il coffee-break e il light lunch, ha assistito a una conference sulle best practices. Il pattern finale che gli è stato forwardato già faceva presagire un terribile showdown. Da qui il senso – che faccio mio per intero – del ritornello.

 
 
 

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