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“La tecnica va messa a servizio del talento vero”. Intervista a Maria Pia Di Meo

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Maria Pia Di Meo

Dare la voce è dare l’anima a un personaggio. Una responsabilità paralizzante che per Maria Pia Di Meo, la più grande doppiatrice italiana, è sempre stato un gioco facile, divertente. Ci riesce sempre in maniera eccelsa: Mary Poppins, I segreti di Osage County, Kramer vs Kramer, Florence, Ultimo tango a Parigi: è sempre lei ed è sempre diversa. Donna di grande talento e altrettanta bellezza che ha tenuto nascosta ai nostri occhi, nel buio della sala di registrazione. Oggi da Roma ci racconta i segreti del doppiaggio.

Mercedes Viola

 

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Come è entrata nel mondo del doppiaggio?

Io ho iniziato a cinque anni, ero andata a accompagnare mia madre a un turno di doppiaggio, e per caso avevano bisogno di una bambina che non era arrivata. Allora sono entrata in sala, ho imparato le battute a memoria, e per me è stato come se l’avessi sempre fatto. Da quel primo giorno poi ho continuato a fare le bambine, i bambini, quasi ininterrottamente, anche perché allora non c’erano tanti bambini che facessero questo mestiere. E per la verità, mi divertivo, era quasi un gioco, non lo sentivo come un lavoro. Naturalmente, crescendo, ho doppiato le ragazzine più grandi. Ricordo uno dei film più importanti che feci, con il noto regista italiano Claudio Gora, Febbre di vivere, dove doppiavo Anna Maria Ferrero che era più grande di me e come lei ho doppiato tante attrici più grandi. Tutto mi riusciva facilmente. Mi piaceva. Il fatto di doppiare attrici conosciute mi faceva sentire importante, e non ho smesso mai, tranne i periodi in cui ho fatto il teatro.

Quando ha fatto teatro?

Ho debuttato con Gassman a dodici anni, in Peer Gynt di Ibsen. Ero praticamente innamorata di Gassman, era un uomo bellissimo, avrà avuto trentacinque anni. Abbastanza antipatico, non con me, con tutti, ma credo all’epoca avesse molti problemi. Pero mi ricordo così bene certi particolari, mi doveva prendere in braccio e ricordo l’odore che aveva, era sudato. Poi l’ho rincontrato da anziano, era venuto a doppiare in sala, ed era completamente cambiato, un uomo carino, che mi disse: «Hai fatto un grande errore a non fare la attrice, e restare chiusa qui dentro».

È un suo rimpianto?

No. Questo grande rimpianto io non ce l’ho. Perché questo grande fuoco dell’arte, io non ce l’ho mai avuto. Sono capitata, in questo lavoro, in questo mestiere, e l’ho fatto volentieri. Ma non avevo abbastanza vanità e non avevo, appunto, questo fuoco, questa voglia di fare che, essendo mia madre e mio padre attori di teatro, conoscevo bene. Era qualcosa che mi veniva molto facile, ma non avevo questa passione. Nonostante questo, forse le maggiori soddisfazioni le ho avuto nel periodo in cui ho fatto il teatro, con Gassman, con lo Stabile dell’Aquila, dove feci Il pellicano di Strindberg, poi con la compagnia della Pagnani, con Foà. Avevo cominciato ad avere una certa passione, ma è durata poco. Feci una commedia di Foà che si chiamava Signori buonasera, che era praticamente tutta un’offesa contro i critici teatrali. Mi ricordo la prima: ci buttarono i pomodori addosso, e ricevetti poi delle critiche bellissime. Ma è durata poco lo stesso.

Ed è tornata al doppiaggio.

Con la Magnani, con la quale feci La rosa tatuata, anche lei non è che fosse molto simpatica, un po’ strana, ed evidentemente non si fidava di questa ragazzina che doveva doppiare Marisa Pavan, che faceva la figlia di lei. Una parte difficilissima, drammatica, e lei non si fidava. Poi, invece, scoprì che ero un talento e mi disse: «Ma che ce stai a fa’ ragazzi’, dentro queste quattro mura, ma tu devi andar via! Devi andar fuori! Che razza di vita è, stare qui dentro!». Poi mi regalò un profumo meraviglioso che ho adoperato per anni, anni in cui mi diventò molto amica, molto vicina.

Se pensa al doppiaggio in quel tempo, e lo pensa oggi, cosa mi dice?

C’è una differenza enorme. Perché anche adesso, se risento dei vecchi film che ho doppiato trent’anni fa, trovo che sono addirittura doppiati meglio di adesso. Allora c’erano molti attori di teatro che facevano il doppiaggio, c’era Foà, Toppa, la Pagnani, la Morelli. E avere un background teatrale, serve in questo mestiere, perché ti permette di non ripetere a pappagallo quello che gli attori hanno fatto in originale, forse con mesi di studio e di lavoro. Il doppiatore deve immedesimarsi in pochissimo tempo, e oggi i tempi sono ancora più ristretti. Oggi bisogna fare tutto in fretta, non c’è il tempo di prepararsi neanche un po’: una volta sonora, una volta muto, e poi si incide. È cambiato tutto. Inoltre ora c’è questa tendenza a eliminare la figura dell’assistente, e quindi quando arriva un film noi direttori dovremo fare il loro lavoro al computer. Ti immagini io, che adopero a mala pena il telefono! Il doppiaggio poteva essere un mestiere artistico, come lo è stato per molti anni. Invece adesso è diventato solo un fatto di soldi. Bisogna fare un film, una serie, tutto in fretta, fare molte scene. E quello che esce fuori diventa abbastanza banale.

C’erano scuole di doppiaggio ai tempi? Ha avuto dei maestri?

Allora di scuole non ce n’erano proprio. Non ho avuto maestri, non ho fatto scuole. Adesso invece ci saranno duecento scuole di doppiaggio. Solo che quello che puoi insegnare a quindici persone in tre ore, è veramente poco.

È stata la voce di tutte le grandi attrici. Ha una preferita?

Io adoro doppiare Meryl Streep, la trovo straordinaria, e l’ho anche conosciuta. Lei ha la capacità di cambiare ogni volta il personaggio. Può fare una parte comica come in Florence, dove è una cantante stonata, divertente, completamente diversa, per esempio, ne I segreti di Osage County. Ogni volta, lei è diversa. Da lei si impara. Io, quando doppio lei, imparo, e questo mi piace, perché credo che nella vita non si debba smettere mai di imparare.

Si può dire che siano state loro, le attrici, i suoi maestri?

Sì, soprattutto lei, la Streep è stata una mia maestra.

Un film che ricordi in particolare, che le venga in mente ora?

Ho doppiato la Schneider in Ultimo tango a Parigi. Ricordo che vidi l’originale prima che uscisse e restai molto scossa da questo film, dall’interpretazione di Marlon Brando in originale. Lui che non aveva una bella voce, era quasi chioccia, ma era di una intensità, una bravura straordinaria; aveva un fascino incredibile, nonostante questa sua voce. In italiano lo doppiò Rinaldi, una bella voce, ma sicuramente con meno fascino. Sapevo che il monologo che fa vicino alla moglie morta, lo aveva addirittura inventato lì per lì, aveva raccontato a questa donna, che si era suicidata, un po’ della sua vita, un po’ di se stesso, è stata quasi una confessione, e quindi una verità, una bravura incredibile. Poi è stato bruciato e adesso è uscito ancora in versione integrale, dopo che era stato tagliato. Secondo me quello è ancora un bellissimo film. La capacita di Marlon Brando di avere sul volto il dolore di un uomo che incombe alla fine della sua vita. Infatti l’ultima inquadratura è lui rannicchiato, in posizione quasi fetale, che muore. In tutto il film c’è questo senso della morte, della inutilità della sua vita, non della vita in generale, ma del suo essere. E lui aveva questo sguardo incredibile, un grandissimo attore.

Una cosa che un doppiatore dovrebbe avere per arrivare al pubblico?

Talento. È questione di talento. Il doppiaggio è un mestiere molto difficile, bisogna unire la tecnica – che ti permette poi di essere naturale, di non far sentire il doppiaggio – al talento; a quelle che sono le tue sensazioni, il tuo modo di sentire, e riuscire, attraverso questo, a fare arrivare queste sensazioni al pubblico. Che non sono tanto date dall’attore in pressa diretta quando dalla capacita dell’attore-doppiatore che riesce a trasmettere quella che è la propria anima, il proprio modo di essere, e portarlo al pubblico. Non tutti i doppiatori sono attori, anche se oggi sono bravissimi dal punto di vista tecnico e sono velocissimi. Ma quando si toccano personaggi importanti ci vuole altro. Ne I segreti di Osage County per me il personaggio più difficile, la Streep, fa la parte di una madre terribile, dura, durissima, alcolizzata, la cosa più difficile che ho mai doppiato. E quello è il punto: tu devi riuscire in poco tempo, a trasmettere tutto quello che lei ha studiato per un anno. Per fare questo ci vuole un abbandono totale. Se tu non riesci con quello che sei tu, a trasmettere quello che lei ha fatto, non viene un bel doppiaggio. La tecnica va messa a servizio del talento vero. Il talento ti permette di fare arrivare certe sfumature, il pianto, per esempio, il dolore, ma anche un certo modo di ridere. Tutto è sempre determinato dalla tua capacità di sentire. Oggi a volte senti le voci e non li riconosci. Sono tecnicamente bravissimi, ma fanno tutto uguale, perché recitano tutti nello stesso modo. Bisogna essere uno e centomila, come diceva Pirandello. Cambiare sempre. Non essere mai se stessi, essere sempre qualcosa di diverso. Allora ha senso, questo mestiere.

Intervista a cura di Mercedes Viola

(L’intervista è stata realizzata telefonicamente)

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