Monica Rossi è uno (sì, è un uomo) capace di fare una sorta di internet art tutta sua – l’intenzione artistica/estetica c’è tutta – annunciando al mondo social di “non esistere”: centinaia di persone attendono i suoi post su Facebook come la nuova puntata di un telefilm indimenticabile; altri utenti cercano di copiarne gli atteggiamenti e le presentazioni espositive dei suoi contenuti; altri ancora lo additano con avversione bollandolo come fake; gli scrittori che non sono riusciti a sfondare nel mercato lo odiano perché non vogliono accettare le sue verità scomode; c’è chi ha presupposto che dietro quella A cerchiata di anarchia si nasconderebbe un noto insegnante di scrittura; chi invece afferma di aver riconosciuto in lui un editore toscano.
Insomma, Monica Rossi è un creatore di caos incontrollato. Quando si muove, non puoi non accorgertene. Facebook va in visibilio e sotto i suoi post le discussioni che si generano vanno avanti per ore e giorni, sembrano non potersi arrestare. Lui risponde a tutti, chi prima chi dopo, con coerenza, argomentando le sue risposte con ragionamenti e prolusioni a volte spiazzanti; altre volte taglia corto mandando a quel paese un interlocutore che non ritiene all’altezza, e non di rado simpatizza con qualcun altro diventandogli perfino amico.
Monica Rossi, per come la vedo io, ricopre quel ruolo di fratello maggiore virtuale che in una bolla social come questa – che troppo spesso dimostra il suo grado di insensatezza, specialmente quando riesce a trasformare in tigri da tastiera agnellini complessati nella vita reale – riesce a fungere da contraltare alla brama di visibilità, in certi casi ai limiti del patologico, e di prese di posizione assunte da una miriade di utenti in una sconcertante bulimia dell’apparenza – con la sicurezza della distanza che si interpone, compresa la privacy esclusiva, e con un coraggio che mai e poi mai riuscirebbero a esibire nella semplicità effettuale di uno sguardo che ne incrocia un altro, o di una voce che varia di tono a seconda della mutazione di un convincimento appropriato a persuadere una persona parlante in carne e ossa.
Ci ha rivelato che è un bell’uomo, sposato, che ha aiutato qualche scrittore a raggiungere il successo dandogli i giusti consigli, che ha un quoziente intellettivo al di sopra della media, e che soffre di un brutto male.
Roberto Addeo
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Dal momento che non vuoi dirci chi sei, ti andrebbe di dirci chi non sei?
Chi non sono…
Questa è una domanda curiosa. Dunque, vediamo… non sono egoista, non sono cinico, non sono competitivo, non sono arrogante, non sono libertino, non sono disordinato, non sono pigro. E soprattutto voglio la pace nel mondo.
Cazzate a parte in verità non lo so chi non sono: spero di non essere un coglione, ecco. Ma qualche dubbio c’è, per fortuna.
Molti addetti ai lavori lamentano che la filiera editoriale sembrerebbe al collasso, e di sicuro la pandemia appena attraversata – e non ancora conclusa – non ha giovato ai suoi meccanismi interni. Eppure ci sarà qualcuno che riesce a far soldi con la vendita dei libri, scrittori di best seller e colossi editoriali a parte. Ci sveleresti qualche segreto di questo universo che per i più appare impenetrabile?
Intanto non sarei così sicuro che i colossi editoriali riescano poi a fare tutti questi soldi. Soprattutto ora, dopo che la pandemia sembrerebbe teoricamente superata (e sottolineo teoricamente). Ciò detto, tralasciando tutti i discorsi teorici tanto cari a questo universo impenetrabile (che proprio perché apparentemente impenetrabile, una volta capiti i meccanismi, è così facile capire) ti dico cosa farei se fossi una piccola casa editrice senza soldi. Che, ricordiamolo, è un’azienda privata che prima di tutto deve conseguire un guadagno e poi (e sottolineo poi) può pensare alla cultura, al messaggio positivo, alla formazione e a tutte queste belle cose che anno dopo anno, bilancio dopo bilancio, tendono a diventare sempre più astratte. Quindi:
1) uno stile grafico impattante che, pur nella diversità delle copertine, permetta alla casa editrice di essere riconosciuta all’istante.
2) un editor giovane (o giovanile toh) che riesca a trovare manoscritti piacevoli, immediati, anche provocatori che affrontino temi di massa. No mattoni per intellettuali, per intenderci.
3) un ufficio stampa che non si affidi unicamente a banali comunicati triti e ritriti da affidare alle agenzie o – peggio – a inutili post su Facebook, ma che sia in grado di prendere il telefono in mano e chiamare una ad una (e sottolineo una ad una) le librerie per presentarsi per poi presentare. Con umiltà.
4) creare un espositore da banco con la solita grafica impattante di cui sopra (in cartone, costa poco) su cui riporre i propri libri destinati alla vendita.
5) inserire in ogni libro un segnalibro originale con scritto qualcosa che stabilisca un contatto intimo con il lettore.
6) non abbassare i prezzi. Piuttosto offrire una scontistica che lasci più margine alle librerie e, se possibile, meno ai colossi online.
7) zero spocchia. Gli aspiranti scrittori sono i primi lettori: bisogna rispettarli.
Quindi i vari pomposi messaggi “non si accettano più manoscritti fino a giugno del 2432” sono ormai fuori moda e hanno stufato.
Anche perché, diciamolo, per capire se un libro è un buon libro a un editor capace sono bastevoli cinque minuti. E per capire se un libro è un pessimo libro ne basta uno.
8) questo punto come il nove, il dieci e l’undici (i punti che farebbero guadagnare sul serio) me li tengo per me.
Quali sono i tuoi autori italiani preferiti e chi consiglieresti ai lettori che cercano altro e non la solita solfa sugli scaffali?
Cinque. Tutti morti: Giurlani/Palazzeschi, Borgese, Comparoni/D’Arzo, Morselli, Parise.
Se un giorno ti decidessi a pubblicare con il tuo pseudonimo, sono convinto che il libro andrebbe a ruba, anche perché hai dimostrato tramite i tuoi post su Facebook di essere un comunicatore fuori dal comune. Hai mai pensato sul serio di farlo?
Per carità. Piuttosto la lebbra. Cosa che rispondo sempre a chi me lo propone.
Ti parlo di Facebook. Io ho sempre lavorato molto, sono sempre stato indaffarato e perennemente di corsa. Ergo, ho sempre considerato (e continuo a farlo) Facebook un’immensa perdita di tempo. Oltre che un illusorio modo per sentirsi meno soli. Un bar: uno entra e dice la sua, l’altro risponde, uno s’intromette e poi escono tutti e tre con la stessa idea di prima. Rafforzata.
Ecco, Facebook è come entrare in milioni di bar pullulati da fancazzisti. Io mi iscrissi unicamente per risolvere una bega fra case editrici rispondendo a una “collega” che stava obiettivamente esagerando. Il senso era «Ehy, anche basta?», lei capì, la smise e stop. Oddio, stop mica tanto perché una volta dentro ho iniziato a scrivere a tempo perso qualche post sull’editoria. Era divertente. E lo era perché nessuno sapeva (e sa) chi sono mentre io sapevo (e so) tutto di tutti. Non ho però mai abusato di questa condizione. Anzi, io rispondo e metto sullo stesso piano chiunque. Dall’autore impegnato da migliaia di copie a quello che si autopubblica (e vende tre copie). Embè, sai che a volte la differenza non è così netta?
Per me Facebook è un videogame. Non devo vendere nulla, non devo promuovere nulla, non devo consigliare nulla, non devo cercare scopate volanti, non cerco approvazione e men che meno amichetti virtuali. Mi diverte invece capire, in base alle prime due righe di un post, se quello è o potrebbe mai essere uno scrittore. O un coglione. Ma se vedo delle potenzialità, o della bontà (caratteristica che mi ha sempre affascinato) quella persona io l’aiuto. Cosa che non faccio se vedo cattiveria unita all’ignoranza. Anzi.
Trovo sintomatico invece tutto questo interesse per un profilo dichiaratamente fake, che ha scelto un nome che più comune non si può, un avatar facilmente confondibile per un credo politico quindi per sua natura divisivo e un timbro narrativo tutt’altro che conciliante. In pratica, la sola forza delle parole. Che – e questo è il bello – non sa scrivere. Perché io, di fatto, non so scrivere. E questa è una cosa su cui scrittori e editori dovrebbero riflettere. E molto.
Mi hai detto di voler parlare del cancro come deterrente per tutti i rompiscatole che ti chiedono in modo ossessivo come stai. Sfogati pure.
Il cancro è una cosa seria.
Chiunque ci sia passato sa che la priorità è (o dovrebbe essere) quella di aiutare chi lo sta affrontando. A me aiutò, e molto, Leonardo Cenci ad esempio.
Ѐ quella la mia principale attività su Facebook. Un consiglio, un aiuto, una virtuale pacca sulla spalla. Io però parto svantaggiato. Tu ascolteresti i consigli di uno che si presenta con un nome finto, un profilo da donna e un avatar con la A di anarchia?
Ma è anche vero che io oltre a non mentire sottraggo anziché aggiungere. Sono alto 1,85? Scrivo che sono alto 1,80. Ed è per quello che m’incazzo con quei poveri sfigati ossessionati da Monica Rossi che continuano (vanamente) a mettere in dubbio il mio cancro. Vuoi offendermi, sbugiardarmi, irridermi o qualsiasi altra cosa riguardo all’editoria? Accomodati. Disquisiamo, discutiamo, offendiamoci, insultiamoci ma poi si spegne il computer e finisce tutto lì. E il giorno dopo amici virtuali più di prima. Il cancro no, il cancro è una cosa seria.
Una volta, proprio nei giorni più bui, quelli in cui mi predissero sei mesi di vita, pubblicai (sbagliando) un mio referto originale e un utente mi attaccò con una cattiveria veramente inaudita. Mi ferì. E ferire me, te l’assicuro, non è facile. Ho lasciato cadere il discorso. Ma lui ha continuato. E una, e due, e tre volte. Alla decima volta mi sono proprio rotto i coglioni e ho deciso di dedicargli quattro ore del mio tempo. Questo e l’epilogo: https://piccolino.home.blog/.
La prossima volta parliamo di tutti quelli ossessionati da Monica Rossi (che non esiste, ricordiamolo) sconfitti nella vita reale e di conseguenza perdenti in quella virtuale. Che ciarpame. Dal muratore sardo che si crede scrittore, al critico letterario sovrappeso con molteplici accounts, al giornalista famosissimo che voleva scoparmi pensando fossi una donna, allo scrittore cui ho fatto confessare verità inconfessabili, al politico editore che ha venduto duemila copie di un inutile libriccino da 2 euro a ben 39 euro alla Regione del suo stesso partito politico. Ho risposto a tutti. Divertente.
Come ho risposto via Skype a Selvaggia Lucarelli che voleva vederci chiaro su Monica Rossi e il suo cancro. Dovevamo stare al telefono due minuti e alla fine siamo stati un’ora e mezza. Cinque minuti a parlare di cancro (con incluso spogliarello, purtroppo solo mio, per far vedere le cicatrici) e il resto a parlare di editoria. Una persona intelligente. Una scrittrice sopraffina. Una conversazione amabile.
Il mio cancro in sintesi: il 13 agosto 2018 mi hanno dato 6 mesi di vita. Ho fatto 8 mesi di chemio. Sono stato operato per la rimozione delle metastasi al fegato. Ho fatto un mese di radioterapia. Sono stato operato al tumore primitivo con relativa stomia. Sono stato operato per la chiusura della stomia. Il cancro è scomparso. Primo follow up, 20 novembre: il cancro è tornato materializzandosi in una metastasi epatica di 3,5 cm x 3 cm. Sono stato operato a fine marzo, in pieno Covid, per la rimozione di quella metastasi. Attualmente sotto chemio per via orale con 9 pastiglie al giorno di Capecitabina. Fine.
Morirò quest’anno? Morirò il prossimo? Morirò fra dieci? Non lo so, non m’interessa. La cosa surreale è che io sto benissimo. A tutti quelli che mi conoscono e incontro devo impiegare mezz’ora a convincerli che è tutto vero. Poi a un certo punto mi stufo e tiro su la maglietta. E allora capiscono. Io sto bene. Sto male solo quando mi chiedono come sto o – peggio – quando non vogliono che faccia qualcosa che ho sempre fatto perché altrimenti “mi stanco”. Ecco, è lì che li mando tutti a cagare. Famigliari inclusi.
Dietro la maschera cinica e fredda che spesso sfoggi, lasci trapelare di tanto in tanto la passione che nutri per esempio verso gli animali e la vicinanza empatica alle categorie cosiddette deboli. Cos’è che fa incazzare più di tutto Monica Rossi e cosa invece è motivo di speranza?
Bah. Ricordo che da piccolo a me faceva stare bene far sentire a proprio agio gli ultimi, i deboli. Pur essendo sempre stato un arrogante teppistello punk, davanti alla bontà vera, pura, autentica io sono sempre rimasto senza parole. Bontà che riesco a vedere anche in chi, come meccanismo di difesa, si comporta in modo apparentemente cattivo. Poi ci sono i cattivi veri. Ecco, quelli mi è sempre piaciuto bullizzarli. Perfidamente.
Animali: vorrei che non esistessero.
Essere un animale, a parte l’1% di quelli che teniamo in casa e coccoliamo e viziamo, significa nascere, soffrire, morire. Per me è una sofferenza: ci sto troppo male. In famiglia abbiamo diversi animali, facciamo i volontari in canile da 20 anni, quando studiavo negli Stati Uniti facevo parte di organizzazioni vicino all’Alf, e poi blitz, poi manifestazioni, poi petizioni, poi raccolta firme, eccetera. Ma continuo a starci troppo male.
Immaginare un animale (che è sempre e comunque un essere più debole) che si affida all’uomo con amore, disinteresse e speranza e per questo viene trucidato, torturato, smembrato, mangiato e vivisezionato mi fa stare troppo male.
Cosa mi da speranza? Credere, anche per questo, che la terra sia l’inferno di un altro pianeta. E poterci andare. Prima o poi.
Intervista a cura di Roberto Addeo