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La traduttrice traditrice

Le traduzioni sono come le donne. Quando sono belle non sono fedeli, e quando sono fedeli non sono belle.
(Carl Bertrand, prefazione a Dante Alighieri, Divina Commedia, 1887-1894)

 

Io non mi limito a tradire nella traduzione ma traslato la mia deviazione professionale anche alla sfera privata, fregiandomi di essere un’adorabile infedele. Sulla carta e sul materasso. Bipolare e bisessuale, sposo la sagacia di Woody Allen il quale sostiene che la bisessualità aumenta del 50% la possibilità di non andare in bianco il sabato sera. Allergica a qualsiasi costrizione e imposizione – con dissoluta eccezione per pratiche di shibari, la disciplina erotica giapponese con le corde, o BDSM, l’altalena sessuale tra dominazione e sottomissione – io rifuggo a gambe spalancate la sedentarietà amorosa in incostante e delirante ricerca di avventure e disavventure. Venere In Pelliccia (1870) rappresenta la bibbia pagana del sadomasochismo, capolavoro dello scrittore austriaco Leopold Von Sacher-Masoch, mio libro feticcio che brandisco a mo’ di frustino intellettuale. L’opera racconta l’incontro/scontro tra il giovane aristocratico Severin e la bella e ricca nobildonna Wanda Dunajew. Le loro dissertazioni filosofiche e personali li conducono a sottoscrivere un contratto: lui, con il nome Gregor, diventerà suo schiavo e lei la sua dea con potere di vita e di morte su di lui purché, ispirandosi alla Venere allo specchio di Tiziano, lei indossi una pelliccia.

Nei nostri tempi moderni il testo originale è stato adattato a pièce teatrale da David Ives, co-sceneggiatore dell’omonimo film diretto da quel controverso geniaccio cinematografico di Roman Polanski con protagonista la conturbante moglie del regista, Emmanuelle Seigner. Film che ricordo andai a vedere in un cinema d’essai semivuoto, agghindata in look all-black con pantacollant, stivali cuissardes e immancabile pelliccia in compagnia di un amante che non ebbe nemmeno l’ardire di molestarmi nel buio della sala! Inutile precisare che da spietata dominatrice, usciti dal cinema, lo scaricai sdegnata sul marciapiede. E vestita com’ero, non mi ci volle molto a scovare, e non solo quello, un’altra vittima da sottomettere ai miei perversi comandi.

Viviamo tempi complicati e annoiati in materia di relazioni personali, tutti affannati a digitare online sesso e amore, ormai incapaci di relazionarci dal vivo e nel vero, fottutamente intimiditi dalla scure del politicamente corretto e del #MeToo, ormai diventato un movimento estremista e pervasivo al pari del Maccartismo degli anni Cinquanta quando a Hollywood chiunque fosse anche solo sospettato di essere comunista finiva nella lista nera di personae non gratae nel mondo ipocritamente dorato, viziato e vizioso dello show-business. Siamo tornati alla caccia alle streghe, in questo caso stregoni da mettere alla berlina attraverso i forconi dei social media, soprattutto negli Stati Uniti, patria della scopata a contratto, dove ormai spopolano app con nomi suggestivi quali Consent Amour, Legal Fling, The Consent App e YesMeansYes per dare il consenso sessuale prima di sollazzarsi tra i guizzi del materasso.

Nella mia rubrica EroticaMente sulla rivista Maxim, ho definito Maccartismo sessuale l’implacabile deriva del movimento #MeToo, di cui sto leggendo la genesi nel libro She Said scritto da Jodi Kantor e Meghan Twohey le due giornaliste del New York Times, il primo quotidiano a svelare la storia di abusi del produttore Harvey Weinstein, indagine per la quale le due giornaliste furono insignite del Premio Pulitzer. Da donna, ma preferirei dire da essere umano, sono assolutamente contraria a qualsiasi forma di abuso e prevaricazione, nella sfera familiare così come in quella professionale. Un’altra cosa, però, è condannare le opere di artisti con una vita privata perversa e controversa.

Allo scorso Festival del Cinema di Venezia, Lucrezia Martel, regista argentina e presidente della giuria della 76esima edizione, ha dichiarato che non avrebbe partecipato alla cena di gala in onore di Roman Polanski per non doversi alzare ad applaudire un condannato per abusi sessuali. Il caso di Polanski è arcinoto: nei trasgressivi anni Settanta, il regista si approfittò di una tredicenne, Samantha Geimer – che negli anni l’ha perdonato, scrivendo anche un libro sulla vicenda – nella villa del compare Jack Nicholson dove Quaaludes (i tranquillanti più à la page in quegli anni), alcool e droghe scorrevano a fiumi. Perché nessuno si domandò allora come mai i genitori di una minorenne avessero acconsentito a lasciarla andare a casa di due famosi bad boys, rinomati puttanieri, del cinema? Ai tempi tutte le celebrità si scagliarono in difesa di Polanski, tra cui la più accanita fu una certa Mia Farrow, che tardivamente, per la precisione 41 anni dopo, si scuserà della sua difesa con un tweet. Oggi la scure del politicamente corretto è in grado di distruggere carriere ed eredità artistiche, rischiando di fare di tutta l’erba un fascio e di scadere nella censura preventiva. Oggi il grande scrittore russo Vladimir Nabokov non credo avrebbe trovato un editore così coraggioso da pubblicare il suo libro scandalo, nonché capolavoro, Lolita.

Detesto l’idea di vivere in una società che monitorizza ciò che posso vedere, leggere, ascoltare. Io distinguo l’opera dall’artista. E forse a comportarsi troppo bene, si cavano solo banuali (da manuale + banale) di starlette d’Instagram con broncio perenne, bocca a chiulo di gallina e chiappa plastificata.

Altro lampante e allarmante esempio di censura è quello di un cineasta della risma di Woody Allen che si vede costretto a fare causa ad Amazon, produttore del suo ultimo film A Rainy Day in New York perché il film sia distribuito. Il colosso del commercio online si è trasformato da “amazzone” a “zecca” decidendo di sottomettersi al politicamente corretto tanto in voga oggi e di non distribuire il film che aveva prodotto dopo l’ennesima manfrina da parte della figlia adottiva del regista, Dylan Farrow, che negli anni Novanta accusò il padre di molestie sessuali, istruita ad hoc dalla madre Mia, sedotta e abbandonata per Soon-Yi, altra figlia adottiva della Farrow (ma non di Allen), nonché attuale moglie del regista, con il quale ha avuto due figli. Allen subì due processi quasi trent’anni fa e fu ritenuto innocente perché le accuse di presunte molestie sembravano orchestrate. La Farrow, con quell’aria da fatina, di figli ne aveva ben 14, di cui 10 adottati e 4 biologici. Di questi, tre sono morti: uno suicida, una per apparente insufficienza cardiaca, anche se pare si sia trattato di overdose e un altro per complicazioni dovute all’AIDS. Altra notizia poco conosciuta della super mamma Mia è la detenzione in carcere del fratello John Villers-Farrow, condannato nel 2013 a dieci anni di carcere per aver molestato due ragazzini minorenni.

Insomma, chi è senza peccato, scagli la prima pietra così finiamo tutti lapidati all’Intifada delle pietre. Io preferisco di gran lunga essere una “pietra rotolante”, sviluppare il mio pensiero critico senza censure e distinguere tra stupro, molestie e avances.

PS Se l’articolo dovesse risultare altalenante, lisergico e strampalato, è perché io mi fregio di essere una devota seguace del “gonzo journalism,” stile giornalistico inaugurato dal compianto Hunter S. Thompson nel 1970 e inneggiante a una scrittura eclettica, controcorrente, bizzarra e surreale.

 

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“Translation is like a woman. If it is beautiful, it is not faithful. If it is faithful, it is most certainly not beautiful.”

(Carl Bertrand, preface to Dante Alighieri, The Divine Comedy, 1887-1894)

I do not limit myself to being unfaithful in translation, but I apply my professional deviation also to my private sphere, boasting to be an adorable cheater. On paper and on the mattress. Bipolar and bisexual, I embrace Woody Allen’s wit who argues that “Bisexuality immediately doubles your chances for a date on Saturday night.”. Allergic to any coercion and imposition – with the exception of dissolute practices like shibari , the Japanese erotic discipline with ropes, or BDSM, the domination and submission roleplay –  I shun open wide and free from amorous monotony in an erratic and feverish search for sexcapades, adventures and misadventures. Venus In Fur (1870) represents the pagan bible of sadomasochism, Austrian writer Leopold von Sacher-Masoch’s masterpiece, my fetish book that I wield as an intellectual whip. The books narrates the confrontational encounter between the young aristocrat Severin and the beautiful rich noblewoman Wanda Dunajew. Their philosophical and personal dissertations lead them to sign a contract: he, as Gregor, will become her slave and she his goddess with power of life and death over him as long as, inspired by Titian’s Venus with a Mirror, she wears a fur coat.

In our modern times the original text has been adapted to stage play by David Ives, co-writer of the homonymous film directed by the controversial genius director Roman Polanski starring the provocative director’s wife, Emmanuelle Seigner.  I remember I went to see the movie in a deserted arthouse cinema, dressed in an all-black ensemble with leggings, boots and Cuissardes boots and the inevitable fur accompanied by a lover who did not even have the audacity to molest me in the darkness of the cinema! Needless to say, being a merciless dominatrix, I indignantly dumped him on the sidewalk once the movie was over and it did not take me long to find another victim to subdue to my perverse commands.

We live in complicated dull times in terms of personal relationships, all zombie-like driven to search sex and love online, unable to truly live and relate in person, so fucking intimidated by political correctness and #MeToo, that has morphed into an extremist and pervasive movement, reminiscent of the 50’s McCarthyism in Hollywood when anyone even suspected of being a communist ended on a black list of personae non gratae in the hypocritical, vicious golden world of show-business. The witch-hunt is back with alleged predators put to shame through the pitchforks of social media, especially in the US, home to the “fuck by contract” where are thriving apps with evocative names such as Consent Amour, Legal Fling, and YesMeansYes designed to give sexual consent prior to amuse oneself.

In my EroticMind column on Maxim magazine, I have defined sexual McCarthyism the relentless drift of the #MeToo movement, of which I am reading the genesis in the book She Said written by Jodi Kantor and Meghan Twohey, the two New York Times journalists – the first newspaper to unravel the history of abuse of producer Harvey Weinstein – whose investigation won them the Pulitzer Prize. As a woman, although I would prefer to say as a human being, I am absolutely opposed to any form of abuse, in the private as well as in the professional field. Another thing, though, is to condemn the works of artists with a perverse and controversial private life.

At the last Venice Film Festival, Lucretia Martel, Argentine director and president of the 76th edition’s jury, said she would not attend the gala dinner in honor of Roman Polanski because shed did not want to stand up to applaud a convicted sexual abuser. Polanski’s case is very well known: in the transgressive Seventies, the director took advantage of a thirteen year old girl, Samantha Geimer – who over the years has forgiven Polanski, even writing a book on the abuse – in the house of his buddy Jack Nicholson, where Quaaludes (nicknamed Disco Biscuits in those years), alcohol and drugs flowed freely. Why no one wondered then how come the parents of a minor had agreed to let her go to the home of Hollywood renowned whoremongers and bad boys? At the time all the celebrities railed in defense of Polanski, among which the fiercest was a certain Mia Farrow, who belatedly, to be precise 41 years later, would apologize for her defense with a tweet. Today the ax of political correctness can, and does, destroy careers and artistic heritage, developing into a preventive censorship. I seriously doubt that today, the great Russian writer Vladimir Nabokov could find a publisher brave enough to publish Lolita, his scandalous book and his masterpiece

I hate the idea of ​​living in a society that monitors what I can see, read, hear. I differentiate the work from the artist. And maybe behaving too well it only leads to hollow and futile handbooks “written” by Instagram starlets with their perennial pout, Botox lips and plastic buttocks.

Another striking and alarming example of censorship is that of filmmaker Woody Allen who was  forced to sue Amazon, producer of his latest work A Rainy Day in New York because it refused to distribute the movie. The giant of online commerce has morphed from an “amazon” to “bug” and decided to yield to political correctness so in vogue today and not distribute the movie that it produced after the umpteenth accusation by Dylan Farrow, the director’s adopted daughter, who in the Nineties accused her father of sexual harassment, specifically instructed by her mother Mia, seduced and abandoned for Soon-Yi, another adopted daughter of Farrow (but not Allen) and current wife of the director, with whom he has been married for over 20 years and conceived two children. Allen was subjected to two processes almost thirty years ago and he was declared innocent because the accusations of alleged harassment were deemed orchestrated. Mia Farrow, with that naïf and fairy air, had as many as 14 children, including 10 adopted and four biological ones. Of these, three are dead, one by suicide, one due to apparent heart failure, although it appears it was an overdose and another from complications due to AIDS. Another unknown news of super mom Mia is the detention in prison of her brother John Villers-Farrow, who was sentenced in 2013 to ten years in prison for molesting two underage boys.

Let him who is without sin cast the first stone so we will all end up stoned to death. I much prefer to be a “rolling stone”, develop my critical thinking without any censorship and distinguish between rape, harassment and advances.

PS If this article sounds fluctuating, lysergic and weird, it’s because I boast of being a devout follower of “gonzo journalism,” the journalistic style inaugurated by the late Hunter S. Thompson in 1970, praising an eclectic, controversial, bizarre and surreal writing.

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