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La vita adulta. Intervista ad Andrea Inglese

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La vita adulta di Andrea Inglese racconta le storie, attraverso il loro percorso esistenziale, del critico d’arte cinquantenne Tommaso Zappa e la giovane performer Nina Dumo. Entrambi presi in una crisi che riguarda la loro vita intellettuale e artistica, li vediamo muoversi sullo sfondo di un mondo in mutamento, da Berlino a Milano, a New York, tra la primavera del 2013 e l’autunno del 2015. Due tempi esemplari della nascita e del declino, dello sbocciare di idee e premesse, e delle consapevolezze ultime. La scrittura di Inglese, atta a orchestrare presenze e coralità, nozioni e punto di vista politico, dopo le ottime prove dei precedenti Parigi è un desiderio e Ollivud, si presenta qui più performativa che mai. Tommaso e Nina non sono solo due soggetti opposti, quanto alla pratica e all’ideologia dell’arte, ma le due sfumature entro le quali la tavolozza di Andrea Inglese si muove: teoria e pratica, racconto e messa in scena del medesimo. La performance non è solo quella di Nina, e la teoria delle arti non è solo quella dei vari Bravermann e la Cupola: l’azione performativa è nel gesto di Inglese che apre il romanzo rammentandoci, col primo capitolo, che siamo al 99% frutto di decisioni altrui, e rinviando il pensiero a quella massima pratica di Gurdjieff di cui parla Ouspensky: ricorda te stesso, ricorda chi sei. E in questa tensione, sollecitati dalla mancanza, e dalla pulsione di un desiderio sempre teso, in questo continuo puntare la ricerca nel mondo di sé stessi, la scrittura performativa di Inglese illumina le nostre aspirazioni, le nostre insufficienze, ci dice che forse è la vita stessa, nel suo quotidiano lavorìo inconscio e razionale, a essere luogo di arte, di teorie e di performance. È l’esistenza, pura e semplice, quel palcoscenico di nostalgia e speranza che ci muove, inconsapevoli a volte, nella direzione imprevista degli sguardi e delle azioni, attori o spettatori. Vite.

«Per me la performance è un intralcio del rito, non una sua sostituzione. Non credo che ci siano forme d’azione e comportamento più autentiche di altre, che bisognerebbe liberare o restaurare» dice Nina, in una delle pagine finali, durante quel ritiro di rilancio artistico, discutendo con il suo ‘coach’ Tommaso. La performance e la teoria dell’arte è il filo rosso intorno al quale imbastisci la storia di una varia umanità che rivive il suo glorioso passato o che si trova alle strette con un presente inconcludente e fallimentare: cosa ti ha spinto a intraprendere un progetto intorno alla performance?

Come già nel precedente (Parigi è un desiderio), ma in modo più frontale e sistematico mi sono confrontato con il “nemico”, ossia con la mercificazione delle nostre vite da parte della società capitalistica in cui viviamo. Di questa mercificazione siamo tutti protagonisti, ovviamente, nel momento in cui entriamo nel mondo del lavoro salariato. Che è un duro, feroce, mondo. Ma cosa succede quando questo mondo s’incontra con gli ideali sublimi, umanistici o progressisti, del lavoro culturale? E in particolar modo di quel lavoro culturale che si chiama “arte contemporanea”. M’interessava esplorare a fondo questa contraddizione. Come vive un’attività legata già da due secoli a ideali di autonomia, di libertà, di trasgressione delle norme, con l’ambito altamente costrittivo e normativo che è quello del lavoro salariato? Per me è ovviamente una questione aperta. È una questione che tocca diversi aspetti (sociali e politici, ma anche esistenziali). Di questa contraddizione tra ideali dell’arte e logica del mercato, mi sembra che la performance rappresenti il punto più estremo: la performance è storicamente, nelle intenzioni e per le sue caratteristiche, la meno mercificabile delle arti. Quindi è questa tensione estrema che ho voluto inscenare. Nina è la persona che più sbatte la testa nel mondo che la circonda, alla ricerca di vie di fuga e, in qualche modo, in quanto artista e artista performativa – toccata (e minacciata) dal successo commerciale – è quella che si trova in prima linea sul fronte.

«In queste faccende Sara era imbattibile, e Tommaso faceva pieno affidamento su di lei, ma Dario aveva quella canaglieria in più, che gli consentiva una maggiore chiaroveggenza nelle soluzioni.» Nel romanzo assistiamo alla messa in vita di una serie di personaggi che stabiliscono fra loro delle relazioni per così dire dialettiche, i soggetti del desiderio che popolano La vita adulta sono spesso caratteri opposti, inconciliabili, quasi archetipi. Come sono nati queste donne e questi uomini, (c’è pure Camilla, la bimba di Tommaso)? E quanto della tua vita adulta è entrato nel romanzo?

I personaggi sono sempre nati con un intento realistico, quindi si sono fondati su esperienza diretta o documentazione. Ma certamente a questa prima intenzione se n’è aggiunta una seconda, di tipo allegorico. Eppure le linee di forza che disegnano questi personaggi – il loro rapporto ai codici sociali, agli ideali di successo, al mondo del lavoro – e in cui tu riconosci “relazioni dialettiche” – sono frutto di una perfetta incarnazione e adeguazione tra concetto e realtà empirica. Dario è l’uomo d’affari, mentre Tommaso è l’intellettuale che non guadagna. Non direi che sono archetipi, ma forse hanno tratti stereotipati. Questa uniformità dei personaggi, però, è frutto innanzitutto della potente forza di condizionamento della società attuale, che non è più capace di generare vera pluralità di orizzonti, ipotesi davvero alternative di mondo e di comportamenti. Insomma, è un’esperienza che facciamo spesso e, insisto ancora una volta, specialmente nel mondo del lavoro: noi e nostri simili tendiamo a divenire caricature. D’altra parte, ognuno deve aggrapparsi all’identità che più funziona, sia sul piano strettamente materiale ed economico, sia su quello simbolico. E questo tende a renderci unidimensionali. Ovviamente la complessità continua a esistere, ma è sommersa o magari salta fuori con l’analista e di sicuro irrompe nelle fantasie private. Di Tommaso, che è il protagonista, vediamo anche gli aspetti sommersi: l’atteggiamento ambivalente nei confronti del denaro e del potere, ad esempio. Per altri personaggi è più difficile, perché sono visti e narrati dall’esterno, con meno carità interpretativa.

««Cinema notturno» era stata un’invenzione di Tommaso ai tempi dell’Accademia, un progetto sbandato e itinerante da realizzare nelle università occupate, in grandi feste a casa di amici o dentro spazi espositivi improvvisati.» Come è cambiato il tuo sguardo sul cinema rispetto alle prose di Ollivud, fermo restando il piglio da indagatore degli stereotipi artistici e culturali?

Il mio sguardo sul cinema non è cambiato, è cambiato semmai l’uso che ne faccio. In un libro come Ollivud, anomalo sul piano delle norme di genere, il cinema è l’entrata pop, facilmente condivisibile, per un percorso che esplora poi a contropelo materiali vari dell’immaginario contemporaneo – da Kubrick e il Pianeta della scimmie, alle descrizioni dei plot presenti nella prima parte del libro. Il titolo Ollivud funziona appunto come insegna familiare di un luna park, le cui macchine daranno filo da torcere alle aspettative del lettore, riutilizzando in maniere dementi o estreme immagini che ha già frequentato attraverso il cinema. In La vita adulta, il cinema – e tutto ciò che è cinema d’autore, d’avanguardia, sperimentale o artistico – interviene come ingrediente esotico, che dovrebbe riscattare la banalità delle vite di un gruppo di artisti, galleristi, critici, mezzi intellettuali. Insomma, vi è un tratto di autoparodia in questa cerimonia di “cinema notturno”, ossia proiezioni private organizzate in casa di amici, con l’idea di realizzare una piccola Woodstock cinematografica. Vengo dagli ambienti dell’avanguardia e della ricerca, e per ciò conosco bene tutti i cerimoniali di distinzione per strapparsi alla “normalità” della vita familiare e professionale in cui siamo inseriti. Se mi è venuta voglia di scrivere romanzi (non anti-romanzi d’avanguardia) è perché, pur continuando a credere nell’importanza di scritture minoritarie, sperimentali e di ricerca, considero gli ambienti letterari in cui si sviluppano interessanti per le loro contraddizioni e persino per i loro aspetti comici o grotteschi. E questo vale a maggior ragione per l’arte contemporanea in quanto tale, che per certi versi si vorrebbe perennemente e interamente d’avanguardia. Il problema dei generi, sia che tu decida di elaborarli accettandone alcune convenzioni, sia che te ne distacchi in modo più radicale, è sempre lo stesso: sono strumenti di conoscenza, ma ovviamente non sono intercambiabili. Ma soprattutto nessuno di essi è “totalizzante”, ossia riesce a restituire o esplorare tutti gli aspetti della realtà. Anche quando si vuole azzerare la letteratura o l’arte nel suo insieme, per produrre azioni sul mondo invece che rappresentazioni, si sta facendo qualcosa, e quindi ci si espone a essere ri-descritti da un punto di vista esterno e critico. Ed è questo spostamento di prospettiva che m’interessa.

«E potrai sempre avvalerti del mio desiderio, anche solo come un motore recondito, in sordina. Ma farà sempre parte della nostra amicizia.» La tua scrittura sembra farsi in diretta seguendo il desiderio stesso dei soggetti-personaggi che ne prendono parte: quanto importa guardare allo spazio letterario non solo dal punto di vista della volontà ma da quello del sentire desiderante? Quanto c’è di pianificato, insomma, e quanto di casuale?

Parigi è un desiderio era, come già dice il titolo, un romanzo basato sul desiderio inteso come motore di fantasmi e più in generale come motore affabulatorio. Da qui una prima persona spesso vociferante. Con La vita adulta è un po’ diverso, e tutto discende dalla scelta di una narrazione in terza persona, pur con “focalizzazione interna”. Ossia qui il punto di vista desiderante (che domina nei due protagonisti) deve fare i conti con la volontà. La volontà altrui, innanzitutto, che è quella dei vari datori di lavoro, e poi degli amici, dei familiari, ecc. Tommaso desidera essere un certo tipo di critico, ma si scontra continuamente con la volontà del direttore del giornale d’arte di cui è redattore, così come si scontra con la volontà degli altri critici, più o meno celebri di lui. Il desiderio di Nina confligge con la volontà del suo amante-gallerista. Dove c’è desiderio, c’è inevitabile fantasticheria, sogno ad occhi aperti, e quindi, sul piano discorsivo, intimo o pubblico, deformazione e scarto espressivo; laddove, invece, vige la volontà, è la logica pragmatica che domina, quella dei puri fatti e dei rapporti di forza. Se poi la tua domanda coinvolge non solo lo scenario dei personaggi e delle loro relazioni, ma il modo in cui, in quanto scrittore, ho intrecciato i loro destini, ti risponderei così: il romanzo è, per me, il luogo di scontro tra caso e volontà, tra l’imprevedibilità degli eventi e i progetti individuali. L’imperativo di cui siamo tutti più o meno vittime oggi – ma mi riferisco a chi è meno schiacciato dal peso della necessità e appartiene a uno strato sociale sufficientemente ricco di risorse materiali o simboliche – l’imperativo, dicevo, è quello del più completo controllo di sé e del proprio destino (almeno professionale). Ciò naturalmente si scontra con l’effetto collettivo, globale, delle azioni sociali e questo genera eventi imprevisti, almeno dal punto di vista del singolo, che sabotano di continuo il suo sogno di perfetta autodeterminazione.

In esergo al tuo romanzo ci sono tre estratti: da Occhio di gatto di Margaret Atwood, da King Kong théorie di Virginie Despentes, da Ferdydurke di Witold Gombrowicz: ci spieghi questa scelta e come queste letture hanno informato la tua scrittura?

Gombrowicz è quello che, in Ferydurke, ha con il suo geniale brio squalificate la vecchia e la nuova ideologia dell’essere “adulto”; quella, conservatrice, ereditata ancora dai nostri nonni, secondo cui dovremmo un giorno accedere a una sorta di compiutezza morale, facendoci i paladini di qualche sacro valore della società; l’altra, progressista, che Gombrowicz aveva decifrato con lungimiranza nella propaganda comunista, che celebra l’eterna fanciullezza o, se vogliamo, una sorta d’infantocrazia. Oggi naturalmente si parla molto di quest’ultima, lamentando generazioni che non arrivano mai a una qualche maturità, che permangono in una sorta di limbo perenne dell’adolescenza. Il problema è che la nozione stessa di vita “adulta”, con tutto ciò che evoca, nel bene e nel male, di compiuto e definitivo, è bersaglio privilegiato dell’ideologia. Difficile, quindi, vederci chiaro. Magari il romanzo – come strumento ottico – permette appunto di fare un po’ di luce. La citazione della Atwood, tratta da un libro molto bello, fotografa perfettamente un aspetto della questione. Per il giovane, soprattutto se ribelle, anticonformista, gli adulti e il loro mondo sono il nemico contro cui ingaggiare lo scontro. Ma nel corso di questa lunga lotta, insensibilmente, il combattente finisce per assumere i tratti del nemico: caratteriali ma persino fisici. Cosa succede a quel punto? È la domanda che si pone innanzitutto Tommaso, ma che comincia a incombere anche sulla vicenda di Nina. Il libro della Despentes ha avuto un ruolo speciale. Lo conoscevo già, e l’ho riletto con scrupolo durante la scrittura del romanzo. La sua visione della donna ha contribuito a costruire il personaggio di Nina (assieme a esperienze dirette, a testimonianze, ad altra ricerca documentaria) in particolar modo per quel che riguarda due aspetti: il rifiuto di lasciarsi intrappolare nel ruolo di vittima e l’idea di strappare le fantasmagorie erotiche all’uso e consumo esclusivamente maschile. Despentes scriveva quel libro nel 2006; oggi le sue posizioni sono più diffuse e accettate, anche se non smettono – almeno mi sembra – di suscitare conflitti persino all’interno del variegato universo femminista.

Andrea Inglese, La vita adulta, Ponte alle Grazie ed., 2021

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