Arrivo con due minuti di anticipo e mi fermo davanti al portone sbagliato. Mentre guardo i miei appunti per cercare il civico giusto, sento una musica che arriva dal portone di fianco dove qualcuno suona un pezzo jazz. La musica si ferma, Luca Pignatelli si affaccia dal portone giusto, mi chiama ed entro nel suo mondo. Mondo onirico come i suoi quadri, luogo dove i tempi e gli oggetti si intrecciano e convivono come le radici del suo glicine, in affascinante armonia. Uomo di grande gentilezza, portavoce di un pensiero dinamico e inarrestabile come i suoi treni, le sue tigri, i suoi cavalli; capace di stupirsi nel guardare il mondo nella sua immediatezza come lo fa un bambino o un poeta. Dopo gireremo nel suo immenso studio, ma prima gli chiedo di suonare ancora e seduto a questa grande scrivania, piena di libri e carte dove troneggia una macchina da scrivere, suona.
Mercedes Viola
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Suono da sempre, a orecchio, senza aver mai imparato le regole, e ora ogni tanto prendo lezioni. La tecnica è molto complessa. La tromba è uno strumento matto: hai tre tasti e puoi fare tutto quello che vuoi perché hai tutta la scala cromatica. Serve un grande allenamento mentale per suonare senza pensarci, i più grandi sono quelli che hanno liberato il rapporto tra la testa e i muscoli.
Liberare la testa mi fa pensare a Ferdinando Vanni, attraverso il quale ci siamo incontrati tanti anni fa per la prima volta.
Sono legato a Ferdinando come analista, ma ancora di più per quello che mi ha detto quando io studiavo architettura ma volevo fare il pittore. Anche mio padre è un pittore, e io un giorno racconto a Vanni questa cosa che Paul Klee disse a suo figlio: «Ma cosa vuoi fare il pittore? Di Klee ce n’è già uno, e sono io». Che stronzo, disse Vanni. E mi chiese di vedere i miei quadri.
Quando prendi la decisione di non fare l’architetto?
È una decisione che avevo già dentro da sempre, tant’è che ho dato tutti gli esami ma non ho fatto la tesi. La architettura m’interessava dal punto di vista della mia ricerca, e Vanni è stato bravo a capire che a me mancava questo tassello, questa spinta per diventare quello che desideravo. Da mio padre ho preso questo spirito lirico, romantico, anche trascendente dell’arte, della pittura; mia madre, che è psicologa, è stata per me una figura più razionale. Mentre quello con Vanni è stato per me un incontro importante in quanto lui era riuscito a capire quale era quella cosa che mancava in me, quella forza di dire «Questo è: fallo».
Avevi sempre desiderato fare il pittore?
Per me è stato naturale, nella sua innaturalità, fare il pittore. Lo volevo da piccolo, ma c’era la figura di mio padre e questo confronto era molto difficile. Anche perché io credevo che fosse un dono della natura. Mio padre ha questo dono della natura, io ancora non me lo riconosco, anche se adesso sto facendo delle cose meravigliose, molto fluide.
Parti da un tema?
No, ultimamente sto facendo decine e decine di disegni a mano libera, molto fluidi, e viene fuori qualcosa di me di molto infantile, molto vicino ai disegni che facevo da bambino. Ma questo, che è filtrato dalla mia capacità di stare al mondo e di essermi acculturato con quello che io voglio, ha creato un corridoio immaginario di riferimenti dentro di me molto forti, per cui io disegno ma dentro ho tutto quello che ho amato, i miei tantissimi Maestri. Il mio modo di fare la pittura o il disegno è come un setaccio che va filtrando continuamente tutto quello che ho visto e che ha lasciato in me come un deposito, quindi sono tutti sedimenti che si accumulano.
Su cosa disegni?
Sto disegnando su disegni, anonimi o non anonimi, di architettura, e li completo come se fossero miei, cancellando o cambiando le strutture. Questo mi interessa moltissimo. Non ho mai creduto nell’assoluta autorialità dell’artista. Il ’900 ha avuto un momento straordinario di creatività, ma, la pittura il disegno la architettura, tutto prima si è costruito attraverso l’esperienza degli altri. Poi a un certo punto dopo Duchamp, l’artista inizia a dire «Io faccio questo perché non l’ha mai fatto nessuno». Prima non era così, continuavano quello che aveva fatto qualcun altro, e mutava l’aspetto in tempi molto lenti, perché ci voleva un esperto per capire se quella Madonna col bambino fosse di Tiziano o dell’allievo minore di campagna.
Come gli interpreti nella musica.
Sì, come nel romanzo Il soccombente di Thomas Bernhard, dove arrivano tre promettenti pianisti ma uno di quei tre è Glen Gould. A me interessa molto perché si riallaccia a un tema importante che è quello di fare qualcosa che è stato già composto o già fatto. Gould è un esecutore alla fine, però un esecutore geniale. A me interessa la questione della misura del talento dell’artista.
Cosa è cambiato in te dall’epoca dei treni?
Avevo questa necessità di dimostrare, non so bene a chi, quanto ero bravo. Ora sono molto più libero. Adesso a me interessa lo strappo, la rottura, la lacerazione di qualche cosa che è perfetta, ma ha già le sue mutilazioni. Come la visione di una scultura mutilata fa ragionare sull’armonia perduta però che ritrovi comunque, come un ramo spezzato di un albero è sempre bello.
E quei numeri sulla tela cosa sono?
Sono proprio i numeri di serie di questo materiale che era dello Stato. Dipingo molto sui teloni dei treni, che avevano avuto già una loro vita, tele piene di memoria.
Questa per esempio RC82, è una tela RC – Rivolta e Crivelli – dell’82, quindi create quando avevo vent’anni. Le più antiche che ho, hanno fatto anche la guerra, quindi magari sono andate in Russia, sono tornate con dieci centimetri di ghiaccio, si strappavano, allora chiamavano la sarta e rimettevano a posto la tela, che era importante perché non si buttava via niente. Conservano ancora i ganci, la canapa, un materiale antichissimo che usavano cinquemila anni fa gli egizi per sollevare i monoliti di pietra, perché se tu la bagni, all’asciugarsi le fibre si ritirano e si accorciano.
Io sono molto affascinato da tutte queste preesistenze che hanno permesso tante cose. Sotto questa tela c’è sicuramente qualcosa di fantastico nella struttura narrativa, nell’idea. Tendo molto a seguire il mio istinto anche poetico rispetto a cose che magari una certa cultura della postmodernità dell’arte contemporanea ha voluto raffreddare, congelare. Non si può più parlare di un tramonto, della luna, niente di romantico.
L’arte è come una persona per me. Ágnes Heller, filosofa ungherese, ha scritto un libro meraviglioso dove ha fatto la scoperta: noi quando vediamo un opera d’arte stiamo incontrando una persona. Io la vivo così tutti i giorni. Vedi un’opera, un palazzo che ti emoziona, e ti sta parlando, ti comunica, ti riflette. Questa è poesia, e anche la poesia è stata vietata, ma c’è molta più poesia in questa corda qui che in qualsiasi cosa io veda. A me interessa questo, e sono arrivato alla convinzione assoluta, che io faccio quello che posso.
Credo nello sguardo dell’artista, quando si parla dell’epifania, dello sguardo che sa cogliere un momento. Lo sguardo del poeta, dello scrittore, dello scienziato o della madre, di tutte queste persone che sono in allerta, quella tensione che ti mette una lucentezza dell’attenzione che è qualche cosa di superiore a tutto il resto.
Cosa cerchi tu oggi nell’arte?
La mia attenzione, la mia ricerca oggi nell’opera degli altri grandi, sta nel cercare il loro mondo attorno, come un’areola. Non mi interessa il singolo quadro di Raffaello, mi interessa Raffaello: che muore a 33 anni, che era un archeologo, un collezionista, un donnaiolo, un pittore straordinario che ha avuto maestri come Piero della Francesca, a me interessa il suo mondo. Un artista ne può sbagliare non una, mille opere, ma se fa una giusta, basta quella. Perché quella informa il mio modo di vedere per sempre.
Per chi è l’arte?
L’arte è per chi la sa guardare, per chi sa accrescersi guardandola. È un bene di tutti, al di là del possesso, delle guerre. Il tema dell’arte è di creare un interesse duraturo. Se domani vado all’Ambrosiana di Milano, so già che voglio andare a vedere il Cartone di Raffaello. Basta. Per me è mio. È anche mio, come la piazza di un paese, come il mare, il cielo con la rondine che vola. Queste cose dell’arte sono quelle che ha elevato la razza umana dal gorilla. Noi sappiamo che abbiamo una vita che inizia qui e finisce qui; questa caducità, questo tempo limitato – del quale sono particolarmente consapevole da quando sono nati i miei figli – è quello che ci deve fare apprezzare, creare, costruire, amare il più possibile quello che abbiamo nel mondo.
Stacchi mai?
Lo stacco non esiste. Io sono quello che faccio. Come il poeta non può fare a meno di guardare e stare al mondo da poeta. Una fetta di salame con del pane abbrustolito, un bicchiere di vino, la campagna, il fuoco, una lucciola, il bambino che gioca, ma anche che si fa male, tu che sei venuta a trovarmi, questa è la vita. Ma poi la vita va avanti, e c’è la persistenza delle cose, come le tele dei treni, o questa porta marchigiana che qualcuno avrebbe già buttato via. Tutto questo per me è arte. L’Arte come un modo di sapere stare al mondo.
Intervista a cura di Mercedes Viola
Photo credit: Giuseppe Anello