“In tutte le direzioni”. Al tempo della crisi, dell’ottundimento, della precarietà bisogna cercare il germoglio del bello e del vero ovunque cresca. Avidamente. È questo che sembra suggerire la seconda raccolta poetica di Laura Di Corcia, pubblicata da Lietocolle nella collana “Pordenonelegge”. Una poesia forte, quella della giovane autrice del Canton Ticino: sanguigna, viscerale, che si confronta con l’incanto dell’innocenza e il dramma della spoliazione, con la corruzione e la violenza che invadono il nucleo puro della vita. Divisa in tre parti, la raccolta compie un tragitto coerente, quasi un periplo, partendo da certe dolenti premesse e tornandovi, alla fine, con uno sguardo diverso. Nella prima parte sono esposti i motivi fondamentali della poetica dell’autrice: il mondo è una “selva oscura” di offese alla purezza, alla bellezza originaria, che dipendono a volte dalla malvagità del cuore e – più profondamente – stanno scritte nella natura. La “lettera dal cielo”, la “coltellata del creato” soffocano gli impulsi più genuini e grandiosi, sciolgono cani che si avventano sulla corsa libera della fantasia, poggiano macigni che opprimono il corpo e non gli lasciano scampo. La vita dell’uomo piegato sotto il giogo si polarizza nel dualismo tra “giorno” e “notte”. Se il giorno è un esercizio obbligato di resistenza, uno scavo di pozzi, un bucare miniere, uno spaccare pietre e sporcarsi le mani di fango, un picchiare la testa contro il duro e “martoriare il riflesso sull’acqua”; la notte resta salva per i viaggi con la fantasia-nave, è il punto dove “le tende cadono a picco/ nella terra/ di primavera e luce” (interiore), il momento per sentire nei cuori “gemere il bianco” e cullare “lo scandalo del vuoto”. Tanti simboli, come particelle elementari, si aggirano nella poesia di Laura Di Corcia: il “pane” (che significa semplicità e purezza), il “chiodo” (a dire un dolore penetrante, semplice ma dirompente), il “cerchio” (nell’accezione di rifugio, recinto sacro) e la “nave” ( che del rifugio è una variante legata all’evasione, alla fuga liberatoria). Sono componenti di una battaglia costante e impari contro il male onnipresente e onnivoro, che alberga perfino sulle labbra dei più cari (una bestemmia che “bolle come un acino d’uva”, una “serpe”) e in se stessi, nella forma di uno strisciante impulso all’autodistruzione:
Decidemmo che l’adamantino
del cielo, il suo fremere nell’erba
era troppo, ci bucava la testa.
Come nulla lo trapanammo
da sotto, raccogliendone le macerie
fino alla salita, fino all’urlo di morte.
Pur sacrificandosi alle condizioni inique dell’esistenza, la scelta dell’autrice è quella di resistere: in un mondo macabro riesumare macabramente il cadavere della gioia “come i maghi d’Africa”. È la scelta di lasciare un segno; in lampi almeno, a bocconi, la testimonianza di un’età felice che, pur perduta, c’è stata e che si può perpetuare nel segno.
Nella seconda parte del libro il male del mondo si declina. In “Trilogia del rosso” la perdita dell’innocenza diventa l’esperienza personale di una giovane donna alle prese con la naturale – e però sorprendente, per non dire disturbante – maturazione del corpo, che è preludio di lacerazioni (l’uscita dalla “casa”, la partenza dalla “madre”), di delusioni e disorientamenti, riassunti nella bella immagine del “non amare e non saper stare senza” e nel binomio simbolico, diretto ed efficace, delle “lacrime” e delle “sigarette”. Su tutto gravita lo spettro dell’offesa suprema: le convenzioni sociali, che intrappolano la donna in una serie di stereotipi e schiacciano le inclinazioni naturali come “stelle che s’impiccano nel buio”.
In “Italiani a New York” l’emigrazione diventa l’emblema del disagio. Gli emigranti sono “pezzi che non combaciano”, la loro corruzione si declina nell’oblio dell’odore delle arance, nel “pestare i ricordi come l’uva”, nell’attendere, forse inutilmente, “il giorno in cui i cappelli sarebbero volati”. In “Lungo il fiume”, infine, si dice “non mi tornano le nuvole/ con il trito dei marciapiedi”, immagine forse definitiva della lacerazione, della pena, del senso di estraneità e insieme dell’impulso di disperata ricerca che permeano l’autrice. L’amore, la dimensione della dualità, esiste e riscatta soprattutto l’aspetto più incruento e subdolo del male, e cioè l’apatia, l’indifferenza. L’amore, a cominciare da quello fisico, il “passarsi la carne”, è un gesto di rigenerazione, di affermazione concreta dell’esistere; e il darsi dell’autrice è un “aggrapparsi al collo”, un abbandonarsi con disperazione e slancio totale. Un po’ come la sua scrittura, intrisa di una pena lancinante ma sempre accorata, innalzata dalla passione.
Una trattazione a parte merita la terza sezione del libro, che Laura Di Corcia definisce “poemetto” e che, piuttosto, ha tutti i caratteri della tragedia in embrione. Di una tragedia racconta: il viaggio “cosmico” dei profughi nel Mediterraneo, vecchi e giovani, in coppia o solitari, siriani e africani, che attraverso l’acqua compiono un’autentica metamorfosi da “qua” a “là” (e il “Qui” del titolo è forse il momento del passaggio, la sospensione sul flusso misterioso e magico del mare). Tambureggiante si presenta il preludio, che mette a paragone le due dimensioni: l’oltre del “virgulto/ che buca la superficie”, del “vento che libera/ i pruni e sgonfia le zolle” e la prigione di “un pineto/ secco che rimbalza le domande/ e le riporta alla terra delle madri”, di “un mare primitivo/ che non sa ancora dire/ chi è morto e chi è vivo”. Nello stile Laura Di Corcia trova una misura molto personale, alternando spunti più propriamente lirici, con un uso intermittente della rima, a passaggi di “prosa spezzata” che emanano un sentore più aspro e ‘meccanicistico’. L’impianto è quello tragico – dello squilibrio, della caduta rovinosa e dell’emergere, infine, di un ‘nuovo mondo’, insieme esterno ed interiore – e tutto è chiamato in causa nel calderone primordiale, la nuova ‘panthalassa’ in cui svolge il viaggio epico dei migranti. Grandezze di tettonica, sommovimenti tellurici, visioni spaziali, leggi della fisica e della biologia sono evocate insieme ai sentimenti più profondi (fede e disperazione,, amore e strazio) per rappresentare un universo che nasce, o rinasce, dall’innocenza.
Un abbozzo di catarsi. Una conflagrazione e poi una rivelazione che traluce agli occhi delle ragazze siriane in rotta verso la salvezza:
E sembra che non serva riparo
pare che si possa davvero viaggiare senza fidarsi
di niente, tutto è possibile, ogni cosa ha senso e trova
l’equilibrio in se stessa, è tutto il mondo – mondo e nient’altro
se è possibile ti chiedi
che la scintilla del mondo stia accesa da sola
e allora l’oblio
sovviene di se stessi e ci si apre
veramente alla vita. La vita accade.
Di fronte all’infanzia spolpata, al male endemico, al miracolo che è comunque esistere, vale infine conservare lo stupore, nutrire la pazienza, lasciare che l’attesa fermenti.
E se tu non sai
non chiedere subito, aspetta.
Sii come la cenere,
stai immobile e muto,
lascia sedimentare.