Una sorpresa inquietante: “Allora Sparak lo fa. Si china e afferra la spalla del cadavere per girarlo di schiena, ma le mani gli scivolano, il corpo gli sfugge, perde l’equilibrio e appoggia un ginocchio a terra macchiandosi di fango giallo. Sospira e ci riprova, lo afferra con più forza fino a farlo voltare. I lembi del grande cappotto della vittima si aprono e appare il torace. Bareim spalanca la bocca e si lascia sfuggire un’imprecazione sorpresa. Un lungo taglio va dalla trachea al diaframma per poi dividersi sotto le ultime costole al disopra dell’ombelico. L’uomo è stato aperto come un pesce”.
Pratiche agghiaccianti: “Gli impianti che girano sono imitazioni. Ma non fa niente, l’importante è crederci! Allora si fanno mettere un’arteria intelligente presa al mercato nero o una sacca gastrica in lattice avanzato sperando di reggere trent’anni di più. Sennonché la persona che trapianta quelle merdate rivende l’informazione alle bande e gli operati vengono aggrediti nelle ore successive da gente che vede in loro soltanto pezzi di ricambio asportabili. Questo qui, come gli altri, forse credeva di guadagnare un po’ di eternità ed è finito sbudellato nel fango”.
Il rifugio della droga: “Sparak cammina. Gli fa bene. Ci ha messo un po’ a svegliarsi. Assumere l’Okios l’ha intorpidito. L’intero suo corpo va come al rallentatore. Sa che l’Okios danneggia la continuità della coscienza e che va usato con parsimonia, ma le immersioni nelle immagini in bianco e nero sono una tale vertigine che non può più farne a meno. Scuote la testa. Gli ci vuole un po’ di tempo per tornare in sé. Il cielo del mattino è attraversato da lunghe nuvole gialle sfilacciate come lana sporca”.
È in libreria Cane 51 di Laurent Gaudé Edizioni E/O 2024, pp. 224, € 18,00, con traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca.
Laurent Gaudé è autore di racconti e romanzi oltre che drammaturgo, e nato nel 1972. Nel 2004 ha ricevuto il premio Goncourt per Gli scorta. I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. Fra le sue opere pubblicate dalle Èdizioni È/O: Ascoltate le nostre sconfitte, La morte di re Tsongor, Noi l’Europa e Salina. I tre esili.
Un tempo Zem Sparak era uno studente impegnato e un combattente per la libertà nella sua Grecia. Ma alla fine il Paese in bancarotta è stato venduto al miglior offerente, nonostante la rivolta.
E nel sangue della massiccia repressione che si abbatté sul popolo in rivolta, Zem Sparak, fedele alla sua promessa di anteporre sempre la vita alla politica, tradì.
A costo della propria vergogna e dell’addio alla sua nazione, si è arruolato come delegato alla sicurezza nella megalopoli del futuro.
Ora è un “cane” – in altre parole, un poliziotto – e opera nella zona 3, la parte più misera e inquinata di questa città governata da GoldTex, il fiore all’occhiello del post-liberalismo iperconnesso e coercitivo. Ma nel corso di un’indagine, il passato gli viene incontro.
Un libro imperdibile scritto con un tale realismo che tutto riconduce al presente.
Nel descrivere una società spaventosa, diseguale, indifferente, oscura fin nei dettagli della sua organizzazione sociale e politica, lo scrittore dipinge un domani che ha il volto delle nostre attuali follie.
Carlo Tortarolo
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Di colpo la città impazzì. Quando i dirigenti di GoldTex annunciarono che il riacquisto della Grecia era andato a buon fine i cittadini di Atene furono presi dal panico. Dopo essersi opposti in massa all’acquisizione, dopo aver manifestato per mesi e appoggiato i giovani che costruivano barricate, dopo aver giurato di andare fino in fondo, finirono per rivolgersi all’oppressore e vollero tutti partire. Anche i più reticenti erano in preda all’ossessione di lasciare la città, non restare prigionieri di quella trappola, raggiungere al più presto GoldTex e continuare la propria vita altrove. Sentivano con chiarezza che il loro mondo stava scomparendo e avevano paura. Giravano voci: si diceva che bisognasse fare presto, che solo i primi sarebbero stati presi, che il destino degli altri si annunciava fosco. Si diceva che la Grecia sarebbe stata smembrata, venduta a pezzi, che presto chi si fosse ostinato a rimanere avrebbe abitato in una terra di schiavi, dimenticato da tutti.
Dovevano andarsene. Nessuno aveva più dubbi. La follia imperversava nelle strade. In viale Tsaldari una donna che si trascinava dietro due valigie e tre figli piccoli si fermò di colpo, si sbottonò il vestito fino a mostrare il petto e si mise a urlare: «Prendeteci! Prendeteci, visto che comprate tutto!». In viale Thiseos alcuni uomini cercarono di costringere un taxi ad accompagnarli al porto. Di fronte alla resistenza dell’autista, che si era chiuso nell’abitacolo, devastarono la macchina, la cosparsero di benzina e ci ballarono intorno con una rabbia che loro stessi, giorni dopo, non furono in grado di spiegare. La disfatta era acclarata e l’intera città voleva scappare. Tuttavia l’effervescenza durò solo pochi giorni. Molto presto ai comportamenti più scatenati subentrò una rassegnazione silenziosa. Se si trattava ancora di panico, era di un’altra natura. La gente usciva per strada oppressa, come se si fosse decisa a essere solo bestiame dopo aver capito che la propria individualità non poteva più opporsi a ciò che stava arrivando. Atene camminava a capo chino. Le famiglie avanzavano con espressione cupa, senza dire una parola. Tutte le strade che portavano alla stazione, al porto o all’aeroporto erano intasate. Assurdamente, molti prendevano l’automobile e quando si ritrovavano bloccati in ingorghi smisurati, costatando che non potevano più andare avanti né tornare indietro, abbandonavano la macchina in mezzo alla strada e proseguivano a piedi, aggiungendo caos al caos. La lunga fila di veicoli abbandonati sembrava ormai essere lì solo per obbligare la folla a contorsionismi crudeli: tirare in dentro la pancia, mettersi la valigia sulla testa, passare tra carrozzerie che luccicavano al sole riverberando un calore insopportabile. La tangenziale che conduceva all’aeroporto era uno spettacolo inaudito di migliaia di uomini e donne rassegnati e pazienti. Nonostante gli annunci specificassero a intervalli regolari che più nessun aereo imbarcava passeggeri, e che comunque era impossibile raggiungere i terminal per la quantità di persone che c’erano sul poso, la gente continuava a presentarsi nella vana speranza che un pilota finisse per trasgredire agli ordini. Tutta la città voleva partire, ma era paralizzata dal numero dei propri abitanti. Le strade risuonavano del calpestio della folla impaziente, di migliaia di bambini tenuti per mano a cui veniva detto di smettere di piangere. Stranamente i nuovi arrivati, quando scoprivano quella marea umana, invece di tornare indietro si aggregavano alla gente, sicuri che quello fosse il posto giusto in cui trovarsi, mettendo a tacere il buonsenso e pure l’istinto di sopravvivenza, accettando di annullarsi nella massa come se trovassero un conforto nello stringersi in quel modo gli uni agli altri, forse quello di constatare che non erano soli e che la loro sventura e il loro spavento erano condivisi. Tutto era lento e faticoso. La folla era esasperata dalla propria impotenza, costretta a sopportare quell’attesa che nel migliore dei casi avrebbe portato al contentino di aver guadagnato qualche decina di metri e nel peggiore a far saltare i nervi.
Anche lui, come gli altri, si era alzato per partire, ma a differenza delle molte famiglie impaurite aveva un badge e una fascia da braccio che gli permettevano di passare gli sbarramenti e saltare le file immobili. Era invidiato per questo. Lo sentiva nelle occhiate che gli lanciavano le donne sfinite. Al porto del Pireo due piroscafi si accingevano a salpare da Atene, due bestioni immensi, che tuttavia sembravano piccolissimi rispetto alle migliaia di candidati che speravano di salire a bordo. L’imbarco era cominciato. Tutti avanzavano verso la passerella con una lentezza inventata da un carnefice metodico. Bisognava esibire i documenti e rinunciare agli oggetti troppo voluminosi che si sarebbero voluti portare. Ogni volta erano grida, proteste e vani tentativi di persuadere gli addetti ai controlli.
Guardava quell’umanità disfatta e si vergognava di lasciarla. La nave militare ormeggiata al molo, più piccola delle altre due, sembrava aspettarlo. Nessuno ci si avvicinava. Era protetta da soldati che tenevano a distanza i candidati all’esilio. Lì si dirigeva lui con passo rapido. Due giorni prima aveva ricevuto il suo ordine di evacuazione. Aveva dovuto cercare di far entrare nella piccola valigia tutti gli oggetti della sua quotidianità. Non aveva salutato nessuno. I genitori erano morti da qualche anno e per la prima volta ne fu felice perché pensò alla tristezza che avrebbero provato alla vista del naufragio della Grecia. La nave stava finendo di fare il pieno. Salì a bordo e rimase sul ponte a osservare il più a lungo possibile il paese da cui se ne stava andando.