“The Last Holiday” il memoir postumo di Gil Scott-Heron, è per la maggior parte un pasticcio deprimente. Il libro dovrebbe avere come suo “focus centrale” il tour del 1980 con Stevie Wonder, a sostegno della campagna di quest’ultimo per proclamare il compleanno di Martin Luther King festa nazionale. Tuttavia, questo materiale non emerge fino a ben oltre metà del libro, e, di gran lunga, ciò che sembra assorbire di più le riflessioni di Scott-Heron sono i suoi giorni di scuola: il precoce interesse per la letteratura, stimolato da Nettie Leaf, un insegnante di liceo che ottenne per il futuro musicista il trasferimento a Fieldston, una prestigiosa scuola del Bronx, grazie a una borsa di studio; l’inizio del programma di scrittura creativa presso la Johns Hopkins poco dopo l’uscita di un romanzo (“The Vulture”) e di un libro di poesie (“Small Talk a 125 e Lenox”) e dopo aver registrato i suoi primi due album. I capitoli successivi sono sempre più sconnessi e imprecisi, e l’esito è straziante, soprattutto quando Scott-Heron ci aggiunge il carico da novanta, dichiarando la sua incapacità ad esprimere l’amore.
(Gregory Leon Miller, The San Francisco Chronicle, 25 gennaio 2012)